Acrobazie nel delirio per gli acrobati del degrado di Renato Barilli

La Stampa - Tuttolibri, 2006 2 novembre 2006 Il Cristo Elettrico
<i>Acrobazie nel delirio per gli acrobati del degrado</i> di Renato Barilli

Lello Voce, cinquantenne, è tra i migliori esponenti dell’ultima ondata di poeti sperimentali, emersi ufficialmente nei primi Anni Novanta, tanto da sentirsi tentati di costruire un Gruppo 93, raccogliendo tra il serio e il faceto un’eredità dal Gruppo 63, con la pratica più spinta di un polistilismo verbale sparato in tutte le direzioni. Nello stesso tempo Voce conferma una bella peculiarità dei nostri poeti, di non restare chiusi nel loro orticello ma di aggredire baldanzosamente anche l’ambito della narrativa. E lo avevano confermato proprio i Novissimi, da Sanguineti a Balestrini a Porta, né del resto questa peculiarità è riservata solo agli sperimentatori accaniti, visto che di recente l’hanno illustrata bene alcuni poeti più «tranquilli», sul tipo di Giuseppe Conte e Maurizio Cucchi.

Ma forse quello che i poeti hanno in comune quando si danno alla prosa, è di non voler evitare un certo estremismo, fornendoci prodotti, per così dire, altamente stilizzati. E proprio l’opera prima narrativa del nostro Voce ne costituiva una conferma, con un titolo che era già una dichiarazione di guerra, Eroina, dove si alludeva alla nota droga pesante, chiamata nello stesso tempo a essere l’eroina della storia, e a farsi subito un paladino convinto nella persona del protagonista, Enrico, un vero e proprio Don Chisciotte alla rovescia, che si inietta la «bella e buona» nelle vene come atto sacrale di iniziazione, come patto d’alleanza con tutti i diseredati del mondo, e a eterna confutazione della schiera infinita dei filistei, fossero anche gli aderenti a una sinistra divenuta pur essa ufficiale e formale.

Naturalmente, questo Don Chisciotte di nuovo conio ha il suo Sancho Panza, ricercato e trovato in piena coerenza con i moduli estremisti assunti per scommessa, si tratta infatti di uno scarafaggio, figura estrema del degrado, da cui tuttavia può partire una speranza di riscatto, infatti questa sorta di «grillo parlante» intrattiene con l’eroe della storia un pungente, graffiante (è il caso di dirlo) commento rivolto alle varie malefatte che i «normali» vanno impunemente commettendo. Per questo contrappunto la blatta si vale di un ironico spagnolo sibilante, da anarchico smaliziato.

Inutile dire che questa «strana coppia» va in giro allo sbaraglio percorrendo una sorta di via crucis, con tante stazioni prevedibili, distribuite tra il primo romanzo, Eroina, e il secondo, che proprio dallo scudiero fedele quanto improbabile si intitola alle Cucarachas, ed ecco ora una terza serie, che del resto incrocia le altre due, infatti le peregrinazioni dei due apostoli del degrado non hanno né capo né coda, possono essere lette dall’inizio alla fine, o viceversa, in fondo i due si aggirano nel fondo di un abisso da cui non c’è alcuna possibilità di risalita.

Al lettore la facoltà di godersi questi lapilli, questi carboni ardenti di atrocità innominabili. Ancora vicine a una dimessa realtà di cronaca le prime fasi, che vedono il figlio drogato malmenare la madre per strapparle la misera pensione; e poi vengono le scorrerie compiute con una banda di suoi pari, ai quali si presenta la possibilità, se proprio non hanno altri mezzi per procurarsi il bianco nettare, di sedersi sulla poltrona di un barbiere crudele che preleva loro il sangue ancora abbastanza sano sostituendolo con quello infetto di drogati appena un po’ più abbienti. Ma la cara compagna di queste acrobazie nel delirio, Maria, viene trovata cadavere accanto a Enrico, che viene rinchiuso in carcere, e parte così, scorrendo all’incontrario, il capitolo delle «sue prigioni», una serie incalzante di tappe nell’orrore e nel degrado più assoluto.

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