Il limone è giallo, nasce in luglio. di Silvia Ballestra

27 febbraio 2004 02. Piazza Alimonda - Solo Limoni
<i>Il limone è giallo, nasce in luglio.</i> di Silvia Ballestra

Giorni fa, andando in libreria, mi sono accorta che è comparso lo scaffale "Genova" e, almeno nelle Feltrinelli che ho visitato io, a Milano, si tratta d’un settore continuamente aggiornato e molto frequentato. Accanto a "No logo", alla biografia di Bové, ai libri della Emi come "Globalizzato sarà lei", ai tascabili della Una che raccontano il debito e il colonialismo, c’è una produzione abbastanza varia sui fatti di luglio, comprensiva di qualche Millelire dalla grafica dirty. Il libro di Giulietto Chiesa ["G8/Genova"] è stato praticamente riordinato il giorno stesso in cui è uscito. Poi ci sono quello di Concita De Gregorio ["Non lavate questo sangue"], le testimonianze dei medici del Social forum ["Obbligo di referto"], una raccolta di Internazionale di articoli dai giornali stranieri ["I giorni di Genova"]. Alla Feltrinelli Duomo c’è anche una mostra fotografica che ti accompagna fra gli scaffali e che poi ritrovi in un libro ["Un altro mondo è possibile"]: in copertina, incorniciato da sottili dreadlocks, il bellissimo visetto di una ragazzina [quindici? sedici anni?], le mani in tasca e la posa rilassata che sorride beffarda - incosciente! minuscola! - a tre massicci e incombenti robocop praghesi. Dal 19 novembre, in libreria, troverete anche "Solo limoni", Shake edizioni, libro più video di 45 minuti, regia di Giacomo Verde, commento poetico di Lello Voce, musiche di Mauro Lupone. E questo, per chi come la sottoscritta - e siamo tanti - pensa che Genova sia una ferita ancora aperta che butta sangue e ridomanda giustizia, verità, rispetto e ricordo, è proprio un lavoro da non perdere. Articolato, bello, vivo, poetico [e non solo per le parole di Verde, Voce, Chamoiseaux, Cervantes, Pagliarani, Brecht, Jahier, Dalton, Zolla, che accompagnano le immagini], è un vero Racconto che si snoda per episodi lungo i caldi giorni di Genova. Scrivo Racconto con la maiuscola per sottolineare, proprio, la differenza da quello che si è visto finora e cioè - oltre al girato andato in onda nei telegiornali e negli speciali - buonissimi, a volte eccellenti, lavori giornalistici, documentari, réportage [penso a "Genova. Per noi"]. In "Solo limoni", oltre all’aspetto testimonianza, c’è proprio narrazione, c’è quello che lo sguardo di chiunque si sia trovato in una manifestazione conosce, riconosce. C’è la tecnica, certo, c’è il mestiere, come dire la qualità, c’è un montaggio a volte epico, con immagini effettate, però ci sono anche lo sgomento, la rabbia [Lello che, fuoricampo, non riesce a trattenersi e invita i poliziotti ad andarsene affanculo da un’altra parte, lontano da quella segatura intrisa di sangue], la commozione, il coraggio e il timore di chi di quel corpo collettivo di trecentomila persone è occhi e voce, da sempre. E allora le immagini arrivano dalle duecentomila camere in pugno ai disobbedienti, da Indymedia, da Verde, da Voce, da nomi propri in ordine sparso, compagni quasi anonimi che hanno donato il loro pezzetto di Genova. Surrealismo tragico L’idea dei limoni, come spiega Lello nell’introduzione al libro, viene dai versi di Montale [che era di Genova], da luglio che è il mese dei limoni, dal fatto che il loro succo viene usato per calmare gli effetti dei lacrimogeni [anche se stavolta non si trattava dei tradizionali gas ma di porcherie urticanti contro cui potevano servire solo le maschere], dalla volontà di accostarsi all’evento secondo una prospettiva sghemba. "Abbiamo scelto di parlare dei limoni perché non volevamo firmare manifesti, ma piuttosto risentire, tra gli occhi e il palato, il sapore e l’odore del succo di agrumi che ci seccava le lacrime e dava sollievo alle pupille accecate…" scrive Voce. E, mi permetto di aggiungere, dai limoni che Berlusconi, questo perfetto dittatore in puro stile sudamericano, ha ordinato di appendere, con invisibili fili di nylon, alle piante troppo spoglie, troppo povere. Del libro potete leggere qualche estratto nelle pagine seguenti. Del video voglio dire due cose. E proverò a raccontare quello che mi ha colpito di più, e perché credo fermamente che tutti debbano vederlo. E lo farò nonostante questa vicenda sia anche un giallo [limone!], visto che c’è un ragazzo assassinato, giustiziato in piazza, ma di cui la drammatica fine si conosce già [e forse anche l’inizio, Cronaca di una morte annunciata, viene da dire, e il Sud America ritorna spesso in questa storia non di realismo magico ma di surrealismo tragico]. Visto che le circostanze della Diaz-Pertini non sono state affatto chiarite. Visto che, malgrado tutti i rapporti e le testimonianze, mandanti ed esecutori sono ancora a piede libero, qualcuno solo rimosso, qualcuno mandato in vacanza premio, qualcuno ben piantato a governarci. Il Sud America di casa nostra Tredici episodi, allora, per raccontare il Sud America di casa nostra. Il più forte in assoluto è quello datato "Venerdì, ore 17,40", e cioè la scena attorno al corpo di Carlo Giuliani. Ciò che si era visto finora finiva lì, l’assalto alla jeep, lo sparo, il corpo esile abbandonato in terra, il sangue scuro. S’era visto un caramba che inseguiva un ragazzo, poi un onesto e mite fotografo pestato a sangue. Qui invece si parte dal dopo. E questo, anche se si poteva immaginare, noi che a Genova non c’eravamo ma che ci siamo lasciati sommergere dalla Ultima Ola via etere, non l’avevamo visto. Non avevamo visto da vicino le facce dei carabinieri, dei poliziotti, che fanno un teso cordone attorno a Carlo inghiottendolo fra gli anfibi e le punte dei manganelli. Conoscevamo solo quelle calotte azzurre e nere, quei boccagli argentati, e ci chiedevamo cosa ci fosse dentro, dietro le visiere. Non li avevamo guardati negli occhi come avremmo voluto fare da subito per vedere chi c’era [ricordo le parole di Livio Quagliata che aveva inutilmente fissato negli occhi una poliziotta, fuori dalla scuola, senza riuscire a stabilire nessun contatto]. Be’, eccoli qua. Ragazzini inconsapevoli piovuti da chissà dove, qualcuno respira a fatica, con la bocca aperta, qualcuno ha paura, non capisce e forse è proprio terrorizzato. Ad altri, invece, i consapevoli, che masticano nervosamente delle cicche, si vede che gli prudono la mani. Uno accenna un sorriso, non si sa se per il nervoso o perché ci sono le telecamere. Comunque, quelli che si vedono, fermi da bravi soldatini sotto le grida di "bastardi assassini" [e anche un anacronistico e orrendo "schiavi del sistema"], sono ragazzini, carne da cannone. Eccoli qua. Quand’è il momento dei fiori, e Carlo è stato portato via, così come il suo assassino, arretrano in massa, goffi, bardatissimi, e si posizionano in qualche cavolo di coreografia militare dal sapore antico, la prima fila in ginocchio, con davanti un pugno di ragazzi disperati e un muro di obiettivi. La segatura in primo piano, questa fila di macchine fotografiche e videocamere contro la fila di manganelli e scudi fa riandare a scene di battaglia antichissime, a guerre di altri secoli, agli eserciti alla Barry Lyndon che marciano lentamente, avanzano e arretrano in un dialogo impossibile. E subito dopo, obiettivi e microfoni allontanati a colpi di lacrimogeni. Poi. Terribili i fumi infernali che si levano dalle cariche e controcariche, le immagini mosse catturate da dietro il vetro d’un portone, l’implacabile pioggia di pietre. Penosi i quattro tamburini che marciano con le bandiere nere, così come il punkabestia, furtivo e tutto storto, che fugge dal supermarket saccheggiato, con un carrello della spesa pieno di generi niente affatto di prima necessità. Preziose le testimonianze sul corteo dei pacifisti caricato a freddo. Surreale il ragazzo che sfila con la maschera da maiale e regge il mondo sulla spalla così come il vecchio passante genovese che sfiora pericolosamente le cariche borbottando. Emozionante il commento sonoro. Autentica la crisi isterica del cameraman. Struggente la citazione, che apre e chiude, della "Cacciata dal paradiso" del Masaccio. Poetico, tutto. Si deve proprio vederlo, sul serio. Per Carlo, e per chi c’è passato.

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