Joumana Haddad intervista Lello Voce

An-Nahar, Beirut, 24 ottobre 2008 30 ottobre 2008 Interviste e dialoghi
Joumana Haddad intervista Lello Voce

La tua esperienza poetica non è ‘tradizionale’: il ritorno alle rime, il rapporto stretto con la musica, i libri che escono sempre con dei CD e/o DVD. Ci puoi spiegare questa tua visione piuttosto poco ortodossa della poesia? Perché il ricorso a questi vettori para-poetici? La poesia ha bisogno di appoggiarsi su qualcos’altro? Non basta il testo scritto? Non basta la parola letta nel silenzio della testa e della coscienza?

La mia poesia è, paradossalmente, credimi, una poesia assolutamente tradizionale. I millenni di storia che quest’arte ha percorso sinora sono stati soprattutto fatti da poesia ad alta voce, spessissimo accompagnata da musica, o comunque da suoni. La poesia è muta solo da qualche secolo: un’inezia. Essa non è solo arte della parola, ma arte della parola ‘a tempo’, ritmata. E’ arte del respiro. Riguarda, da sempre, anche la voce, non solo la parola. Al punto che anche la poesia diciamo così, moderna, per essere realmente fruita, non è mai solo testo scritto, ma anche la sua ‘esecuzione’, la sua ‘oratura’, sia pure solo ‘mentale’, o ‘silenziosa’. La rima (ma le assonanze, e ogni altro tipo di ‘figura sonora’) è un elemento basilare della poesia, di tutta la poesia, in quanto ‘figura’ del suono: si può decidere di usarla o meno e di farlo o meno secondo tradizione, ciò non significa che la poesia sia muta. A me personalmente sembra indispensabile un gioco d’assonanze per una poesia come la mia, che vuole essere fruita prima di tutto attraverso l’orecchio e non attraverso l’occhio. Perché la poesia è arte dell’udito e non della vista, come la pittura. Con la nascita di nuovi media, come i registratori e riproduttori di suono, la poesia ha riscoperto queste sue radici sonore.
La musica da sempre la accompagna, in tutte le tradizioni del mondo, dall’antica poesia araba ai trovatori occitanici, da Dante sino ai canti dei griot africani. Ma la poesia non si ‘appoggia’ alla musica, dialoga con lei, e, in un certo senso, la musica, quando incontra la poesia, diventa poesia essa stessa, sua parte integrale e indispensabile. Perché, contrariamente a quanto si crede, la poesia non ha niente a che fare con la letteratura, che è un’arte costituzionalmente muta.

Hai introdotto il poetry slam in italia. Parlaci di questa tendenza che non esiste ancora nel mondo arabo, anche se l’oralità rappresenta una parte intrinseca della nostra tradizione poetica. Si può giudicare una poesia in 3 minuti? Non è ingiusto ridurre un poeta alla forza della sua presenza su un palco, cosa che è molto determinante in queste gare, a volte più del testo stesso?

Il Poetry Slam è sostanzialmente una gara di poesia in cui diversi poeti leggono sul palco i propri versi e competono tra loro, valutati da una giuria composta estraendo a sorte cinque elementi del pubblico, sotto la direzione dell’EmCee (Master of Cerimony), come dicono in America, mutuando il termine dallo slang Hip Hop.
Ma lo slam è poi, in verità, molto di più, ed è in questo ‘di più’ che sta la ragione del suo dilagante successo in tutto il mondo.
Lo slam è un modo nuovo e assolutamente coinvolgente di proporre la poesia ai giovani, una maniera inedita e rivoluzionaria di ristrutturare i rapporti tra il poeta e il ‘pubblico della poesia’. Lo slam è un invito pressante al pubblico a farsi esso stesso critica viva e dinamica, a giudicare, a scegliere, a superare un atteggiamento spesso tanto passivo quanto condiscendente, e dunque superficiale e fondamentalmente disinteressato.
Lo slam inoltre riafferma, una volta per tutte, che la voce del poeta e l’ascolto del suo pubblico fondano una comunità, o meglio una TAZ (Temporary Autonome Zone), come direbbe Hakim Bey, in cui la parola, il pensiero, la critica, il dialogo, la polemica e insieme la tolleranza e la disponibilità all’ascolto dell’altro sono i valori fondamentali. Un poeta, poi, è un corpo, una voce, non solo il distillato mentalistico delle sue parole. Il poeta, se vuole vivere davvero, fa parte di una comunità, e si interessa della sua identità, dei suoi dolori, delle sue gioie e la sua capacità di trasmettere a quella comunità ciò che immagina, ciò che sogna, ciò che scopre, ciò che gli dà dolore è decisiva. Ma se una comunità può essere un pubblico, non è mai una serie di lettori, uno isolato dall’altro. ‘Come’ si legge ad alta voce è, in questo caso, altrettanto importante di ‘cosa’ si legge, proprio perché l’arte è sempre una questione di forme e non di contenuti. E la forma della poesia è una forma sonora, in ogni caso.

Hai scritto anche romanzi. Perché? Che cosa ti ha dato quest’esperienza che la poesia non poteva fornirti? Quali demoni hai provato di cacciare con la prosa?

La poesia, almeno quella che pratico io, ad alta voce, è un’arte del tempo, della parola nel tempo. Essa ha una durata, il tempo è una sua precisa ‘forma’. Insomma, a mio parere, fare poesia è fare esperienza del tempo, sia di quello ritmico, che di quello del respiro, biologico. Il romanzo non ha nulla a che fare con tutto ciò, esso è integralmente, ab imo, un’opera scritta, silenziosa. La dimensione vera del romanzo, che è invenzione borghese, è quella individuale, del silenzio. Non c’è nulla di più simile ad un telespettatore che un lettore di romanzi. Il pubblico del romanzo, come quello della TV, semplicemente non esiste, esistono i suoi lettori (o telespettatori): centinaia di individualità separate, centinaia di contesti diversi, ma singolarissimi. Ciò che fa del cinema un’arte differente dalla televisione non è la dimensione dello schermo su cui scorrono le immagini, ma il fatto che una nasce per una fruizione privata, l’altro per una fruizione pubblica, comune. Eppure anche il romanzo ha a che fare con il tempo: se la poesia è la sua pratica, il romanzo è la sua ‘teoria’: il romanzo narra il tempo, prima ancora che gli avvenimenti che accadono al suo interno, e il primo problema che esso si pone, se è un romanzo e non una storiella gonfiata, è quello del tempo e della sua narrazione. Ecco perché ho deciso di scrivere un romanzo e svariati racconti, per fare un po’ di teoria del tempo, o meglio, dell’esperienza che noi abbiamo di quel fenomeno abbastanza oscuro che chiamiamo tempo. I demoni poi, erano quelli che stanno dietro ogni voglia di narrare: i demoni del dolore (nel mio caso quello di circa 10 anni di tossicodipendenza ‘hard’), quelli della sconfitta, e insieme quelli, ancora più pericolosi, del sogno, dell’utopia e della speranza. I racconti, in fondo, servono a questo: a sobillare gli uomini ad immaginare, per se stessi o per il mondo, un’altra storia possibile, una storia diversa, per invitarli a sabotare il destino con bombe di parole.

Problematico il tuo rapporto con la lingua, con questa tua bellissima lingua italiana. Quasi come se la mettessi su una sedia elettrica quando scrivi: Irrespetto o sfida? Rabbia o amore passionale? Anti-puritanismo o tolleranza esagerata nei confronti degli intrusi?

Tutto questo insieme: io sono certamente un abitante della mia lingua (la lingua è la casa dell’essere, come diceva un filosofo che andava di moda qualche anno fa, l’orribile Heidegger), ma la mia lingua è poi un’abitante della realtà. Ha a che fare con la verità, o, meglio, con ‘le’ verità. Come potrei lasciare qualcuno degli abitanti di questo mondo fuori dalla porta? Come potrei rinunciare a far parlare uno qualsiasi dei miei molteplici ‘io’? Come potrei far finta di non vedere una qualsiasi di queste verità?
Avrebbe detto un grande scrittore italiano, che considero tra i miei maestri, C.E. Gadda, ‘barocco non è il Gadda, barocco è il mondo’.
E’ vero, metto tutte le mie parole sulla sedia elettrica, le passo sotto la ghigliottina, le torturo, stringo il loro collo nella garrota, le lapido, o, meglio, le partorisco nel dolore. Così chi mi legge non dimenticherà che, nello stesso momento in cui nasce o muore un verso, da qualche parte muore o nasce un uomo. Non dimenticherà che, alla nascita, vagiscono allo stesso modo il boia e la vittima. E che hanno in eredità le stesse parole, che ne sono entrambi, in parti uguali, padri e figli, vittime ed assassini. Perché la lingua che si sceglie per fare poesia, o più semplicemente, per parlare è una scelta politica, è uno schierarsi: la forma è integralmente la ‘sostanza’ del nostro dire...

La poesia muore, non muore. Muore, non muore... Sembra una litania da sempre. Su quale riva sei tu?

La poesia non muore, se sopravvive l’uomo. Sarebbe già morta da sola, se non gli fosse indispensabile. E’ ormai così esile lo spazio che le è lasciato da media ben più prepotenti, è ormai così flebile la sua voce, che sarebbe sparita da tempo, se essa non fosse parte costitutiva del pensiero e dei sentimenti di tutti noi. Tutti noi esercitiamo la poesia, ogni giorno, ogni volta che, a partire dall’incontro dei suoni di differenti parole, riflettendo sulla lingua, giocando con lei, torcendole il collo, scopriamo pieghe del reale che prima ignoravamo. La poesia serve a tenere in esercizio la lingua. Sinché gli umani parleranno, la poesia vivrà, alla faccia degli iettatori che la danno per morta da secoli, più o meno da quando la borghesia e la sua ‘letteratura’ hanno iniziato a pretendere di ucciderla in nome della merce ‘romanzo’. La poesia è ‘valore d’uso’, la poesia non ha, non ha mai avuto un reale ‘valore di scambio’. Perché è un bene comune, una necessità condivisa. La si può mettere in un ghetto (come usa al giorno d’oggi, in Occidente), ucciderla mai. Sarebbe un suicidio...

La disperazione salva, si dice. Perché un poeta si alza ogni mattino, a parere tuo? Perché ti alzi tu?

Perché ho nostalgia del futuro. Perché sono troppo disperato per dormire. Perché sono troppo entusiasta per dormire. Solo chi conosce le parole che sussurrano in un brusio la disperazione e il sogno alle orecchie di ogni uomo, può sperare, può immaginare il futuro. Quando apro gli occhi al mattino lo faccio, in ogni caso, perché sono innamorato. Di una donna. Di una parola. Del dolore che mi dà la mancanza d’amore o di parole. E se decidessi di non farlo più, allora non sarebbe di un suicidio che bisognerebbe parlare, ma solo della fine, magari imprevista, di un lungo esercizio di equilibrismo sul filo delle parole, tra gioia e scoramento, tra stupore e noia, tra amore e indifferenza, tra rabbia e tenerezza. Di un tuffo. Con la speranza che dopo, a riva, arrivino almeno quelle poche parole ‘a tempo’ che ho messo assieme in questi anni. Un tuffo. E tutto fa parte del tuffo. Il trampolino, l’aria, l’acqua che si apre all’impatto del corpo, quel corpo che si tuffa e la mente che ha scelto di farlo, ciò che riesce, o non riesce, a tornare a riva. Un tuffo. Il ‘suicidio’, inteso come lo intendono le religioni monoteiste, vera lebbra del mondo, è, letteralmente, un non senso, o se vuoi, un suicidio della lingua.

Scrivere e dire per cambiare: Ci hai creduto mai, ci credi sempre? La poesia potrebbe sopportare la catena di avere una missione? E se si, quale?

Ogni poeta mentre scrive (o esegue la sua poesia) deve credere che ciò che sta facendo potrà cambiare il mondo, lenire il male, rendere indimenticabile la gioia, e così ogni suo lettore e ogni suo spettatore. Ogni poeta per poter scrivere deve credere di poter ‘creare’ e ogni suo lettore deve credere di essere davanti a una ‘creazione’. La poesia è in questo senso, sempre ‘performativa’, nel senso che ‘funziona’ solo a partire da un patto comune tra emittente e ricevente, come sostiene Lotman.
Ma ogni poeta e ogni lettore che si rispetti sa che poi non è affatto così. Che è solo di arte che si tratta (there is no reason to believe that art exist, dice Fluxus). Che le rivoluzioni non si fanno con le parole. Che ogni artista non crea, ma, al massimo, inventa, cioè trova e riusa.
La poesia è una disciplina. Per chi la scrive e la dice e per chi la legge e la ascolta E’, in fondo, essa stessa una catena. Una catena che potenzia la nostra libertà di dire e di capire. E’ un’arte. E un’arte non ha altra missione che se stessa, le sue forme, la sua capacità di commuovere e comunicare. La missione del poeta, che faccia poesia politica o meno, è quella di scavare dei tunnel (nel reale e nel cuore degli uomini, nel senso della vita) senza perdere di vista le stelle, di essere un minatore con l’hobby dell’astronomia. Di scoprire e dire ciò che solo la poesia può scoprire e dire.
Non si conquista la Bastiglia a colpi di alessandrini, certo, ma a chi verrà in mente di farlo, chi sarà tanto pazzo da correre il rischio di mutare la storia, senza il piffero del poeta, di un artista che gli mostra il sogno e lo accompagna per mano sin là? In fondo ognuno di noi conquista la Bastiglia in nome proprio. Ognuno fa la sua rivoluzione.
A volte, per miracolo e per progetto, che poi sono la stessa cosa, capita che la nostra rivoluzione sia quella di tutti. E allora anche le parole hanno il loro peso determinante nella scelta, in quel sangue versato che fa primavera. La comunicazione e il linguaggio, inoltre, sono la base delle società attuali e la loro vocalizzazione, il loro insediarsi materiale in un corpo, in uno spazio e in un tempo presenti e comuni ha grande valore, se non altro come testimonianza dell’esistenza, ma-gari residuale, di una comunità, di una comunità interpretante, attenta, sospettosa, attiva, conscia dell’effimero dell’arte nei confronti delle macrostruttura, ma anche del suo valore nella strutturazione degli immaginari, che per molti versi, nelle società dello spettacolo, a loro volta, soli, possono influenzare e modificare le macrostrutture, nel loro trasformarsi in scelte, stili di vita, comunicazione, consumo, poiché, oggi più che mai, la prassi inizia e si fonda nell’immaginario.

Sei stato e sei ancora impegnato politicamente. Sono tentata di chiederti solo questo, in un tono quasi incredulo: Perché?

Perché sono un uomo e ciò che accade attorno a me mi riguarda, anche se accade ad altri. Perché la poesia è un’arte costitutivamente politica, sono parole composte e dette per la polis, perché un poeta senza una comunità, senza un ‘pubblico’, è muto. I poeti, si sa, possono essere ciechi, ma muti mai, non sarebbe possibile. E un uomo solo, che può ascoltare solo la sua voce, è, senza dubbio alcuno, un uomo muto. E dunque un poeta inutile. La poesia non ha nulla a che fare con il narcisismo, è piuttosto uno spericolato esercizio di equilibrio tra le cose, gli eventi e il loro senso. Una poesia d’amore è una poesia politica, parla del sentimento che unisce due esseri umani, nel loro costituire un legame, che è la prima forma di società, la prima forma di civiltà. E può essere scritta, come tu ben sai, da Eva, o da Lilith, e questa è una faccenda integralmente ‘politica’, anche se apparentemente si parla d’amore, o d’erotismo. Esiste una politica dell’amore, una del dolore, una della gioia, una del corpo, e così via... Tutto questo ha poco a che fare con il ‘realismo socialista’, o con l’engagement, il committement retorico e trombone di alcuni, ovviamente. Piuttosto riguarda lo strazio di Majakovskji, di Dickinson, di Brecht, di Hafez, o di Pavese, che certo non storsero le labbra quando si trattava di fare politica. Non solo con le parole, ma con i loro corpi. Con le loro Rivoluzioni e con i loro ‘tuffi’.
Poche voci dalla poesia italiana contemporanea arrivano fino a noi. Qui nel Libano abbiamo avuto la fortuna di poter scoprire tanti poeti italiani immensi attraverso il francese. E anche, in pochi casi sparsi, addiritura attraverso l’arabo. Ma rimane vero che c’è una lacuna infinita a questo livello. Ci puoi dare un’idea sul panorama poetico italiano oggi?

Questo vale anche per la conoscenza di poeti libanesi, o più in generale arabi, in Italia. Ed è cosa grave, perché è un colpo basso inferto a un’identità comune, quella del Mediterraneo, di un mare che dovrebbe unirci e invece spesso ci divide. Eppure siamo tutti abitanti delle sponde diverse di un medesimo lago. Ma tradurre poesia è il lavoro più difficile e meno considerato del mondo, attualmente, e così ognuno conosce solo i propri poeti. Se la poesia italiana è stata negli ultimi 20 anni tanto provinciale e gretta è anche perché i poeti italiani sanno pochissimo di ciò che accade altrove.
Essa, dopo la stagione di eroico rinnovamento dei ’60, che è coincisa con il sorgere e il tramontare delle cosiddette Neo-avanguardie (Balestrini, Sanguineti, Porta, Pagliarani per fare solo alcuni nomi) e di alcune personalità eccezionali, ma non facilmente catalogabili, come Villa, Vicinelli, Spatola, Fortini, Zanzotto, ha vissuto una stagione di sonno profondo, di profonda regressione, in cui l’hanno fatta da padrone viete poetiche neo-orfiche, neo-simbolismi d’accatto, tutto il catalogo, invero deprimente, di albe e tramonti e melensi sentimenti assortiti. L’io lirico (la truffa delle truffe, insomma) è tornato, dall’inizio degli anni ’80, a farla da padrone. E questi poeti (da Cucchi a De Angelis, da Rondoni a Conte) hanno occupato tutte le posizioni di potere editoriale, annullando, per molto tempo, la possibilità di qualsiasi altra poetica di trovare spazio e farsi conoscere. La poesia italiana è stata, letteralmente, un feudo di costoro per circa un quindicennio, e, per molti versi, oggi non molto è cambiato. Basti pensare a due delle più note antologie dedicate ad autori contemporanei, quella di Cucchi e Giovanardi e quella di Piccini e Rondoni: truffe ideologiche in cui i curatori non hanno pudore e sono capaci di dedicare più pagine a se stessi che ad Ungaretti, o nel caso, di Piccini e Rondoni, risultato di viete operazioni revisioniste in cui tutto ciò che non è ‘lirica’ neo-simbolista, possibilmente cattolica, viene cancellato con un vergognoso colpo di spugna. Operazioni che avrebbero creato imbarazzo in qualsiasi altro paese europeo hanno trovato in Italia aperta la porta di grandi editori.
Così la poesia, come una vecchia zitella acida, si è isolata dalle altre arti, la categoria inutile del ‘poetico’ si è sostituita alla poesia stessa, la comunità poetica, un luogo tradizionalmente di conflitto e tolleranza, è diventata qualcosa di molto simile a quegli stantii club inglesi per soli uomini dove l’accesso è consentito solo ai soci (in questo caso ai soci del simbolismo e dell’orfismo più o meno vestito a nuovo e agghindato con qualche fiocco postmoderno).
Qualcosa è cominciato a cambiare dall’inizio dei 90, con la nascita del Gruppo 93, un manipolo di autori che ha iniziato di buona lena ad abbattere gli steccati di potere e di mediocrità che costoro avevano eretto intorno alla possibilità della poesia di rinnovarsi. Che ha sfondato a colpi di sperimentazione e nuovi media la porta di quel club, tra le grida scandalizzate di soci vecchi e giovani.
Poi grazie ai Festival, ai Poetry slam, all’iniziativa di piccoli editori coraggiosi, a Internet, a nuove generazioni di autori sempre meno disponibili a sottostare al ricatto di certi ‘cattivi maestri’, i feudatari sono dovuti scendere da cavallo e, nonostante ancora oggi siano loro quelli che hanno la maggior parte degli spazi e delle leve di potere a loro disposizione, nuovi varchi si sono aperti e la poesia ha ripreso a vivere libera dalle catene di una mediocrità asfissiante.
Oggi i giovani poeti italiani fanno poesia in mille modi diversi, con media diversi, con forme diverse, si sentono più liberi di ieri, riprendono a dialogare con le altre arti, a guardare al reale, alla storia, hanno compreso che per sognare nuovi sogni occorrono parole nuove, che, come sosteneva Deleuze, si scrive, se si scrive davvero, per un popolo che ancora non c’è. Hanno di nuovo il gusto di rischiare l’inaudito, di credere che la poesia è una scommessa e non una garanzia d’immortalità, che serve a mettere in crisi e non a consolare, a provocare e a rischiare e non a intrattenere.
Il tempo che passa, insomma, come sempre, lavora, anche da noi in Italia, per la salvezza della poesia. Quella vera. Quella che nessuno di noi osa ancora immaginare e che quando nascerà lo farà proprio come e dove nessuno di noi si sarebbe mai aspettato che accadesse. Altrimenti che poesia sarebbe?
- 

Altro in Interviste e dialoghi

Altro in Teoria e critica