La lingua elettrica di Voce di Angelo Guglielmi

L’Unità, 2006 5 dicembre 2006 Il Cristo Elettrico
<i>La lingua elettrica di Voce</i> di Angelo Guglielmi

Il Cristo elettrico di Lello Voce è davvero un romanzo coinvolgente. E non perché è una storia maledetta con protagonista (l’Enrico che scrive e sa di poesia) eroinomane e assassino; non perché si svolge quasi per intero in carcere (dove nefandezze e turpitudini fanno a gara per vincere); non perché i pochi orizzonti (anzi luoghi) naturali (il racconto è ambientato in una città di mare - forse Napoli) sono oggetto di una violenta azione di degrado (“D’estate era arrivato” - il riferimento è al gestore di un bar n.d.r- “a montare un mega schermo in punta sul molo:che a nessuno venisse in mente di guardarsi il mare,orizzontarsi, riscoprire Nord e Sud e tutto quel che ne consegue. Ci proiettava preferibilmente scene marine, documentari sui surfisti australiani, o riprese subacquee di mari tropicali: mare virtuali su mare vero, senza pietà, per affondare nella marmellata fino agli occhi”); non perché alcuni passaggi narrativi sono centrati su meccanismi così efferati da provocare una situazione di insostenibile disagio nel lettore(senza tuttavia consentirglidi abbandonare); non perché è una storia che, pur se tutta terribile e nera, non rinuncia a far posto all’affacciarsi di consapevolezze e qualche tenerezza (ma subito represse) - per una buona metà del romanzo il protagonista scrive lettere (mai spedite) alla madre; e dunque non perché l’autor peovoca e sfida il lettore che, accettato il guanto, non è disposto a perdere.

Il Cristo elettrico si affida a un linguaggio straordinario che mai smette di tenere in vista lo stile del Gran Lombardo (come Voce chiama Gadda ): “E poi, cara mamma, da piccolo io volevo mica fare il figlio. Volevo fare(da piccolo) - che so? cugino? zio? pronipote? parente largo, insomma...Rifuggivo dalla realtà affamiliata,dal presepe a ogni costo..Il bue,l’asinello, la telemangiatoia..Mi disperdevo,mi rivoltavo in oniriche, libere affabilità ziesche,in cuginifere sicurezze di affetto ma non troppo, in olfattive sensibilità bisnonnesche,biscottesche”. Un linguaggio armato contro se stesso, sempre pronto a dirottare in devianze proibite, a annegarsi in eccessi sintattici, a infettarsi di ogni sorta di virus. Si, un linguaggio malato, martirizzato, che affonda, in una espressività degradata, senza pentimento. E non è una sorta di sacrificio, di ferocia deliberatamente indossata, la scelta della droga e dell’assassinio da parte del protagonista, più punitiva che autopunitiva e per nulla ( e mai) riscattante? Una sorta di inutile e cinico controcanto alla pretenziosa “bugia” che da ogni canto ci corteggia. “ E quella che chiamiamo vita non è altro che la lentezza spossante con cui ci accorgiamo che è già tutto finito, ancora prima di iniziare;una moviola insensata , che rallenta il precipitare e moltiplica la potenza dell’impatto finale.Una bugia con le gambe corte. Una morte.”

Ed è proprio una corsa verso la morte il tragitto del protagonista che, attraverso il veleno che “si spara nelle vene” e il carcere che lo accoglie, estremizza, non rinunciando a un certo qual orgoglio, una conclusione cui tutti, soprattutto gli illusi del no, sono votati. “Le galere le avete costruite per questo. Per illudervi del fatto che voi siete fuori, liberi. E invece siete dentro una galera anche voi. E la vostra è una galera dalla quale non si può evadere. Come il guscio della tartaruga, la casa della lumaca. Non come la nostra, che basterebbe un attimo di distrazione dei Riveriti Superiori e ce la sfileremmo da dosso come pelle di serpente”. Il Cristo elettrico non è un romanzo criminale quale ci viene dalla letteratura yankee in cui la sovrabbondanza realistica, l’estremismo figurativo ha intenti documentaristico-testimoniali, nel senso di mettere a disposizione del lettore un pezzo di realtà, a questi ignota, senza altra preoccupazione che di caricarla di tutte le asprezze ( e crudeltà) con cui si presenta a chi (consapevolmente) ne fa esperienza. Il romanzo criminale di Lello Voce fa fatica a nascondere la sua natura metaforica e in qualche modo nostalgica di un mondo diverso al quale il protagonista avrebbe voluto appartenere se condizioni non certo legate alla sua tendenza a delinquere (che rappresenta una motivazione debole) ma alla strutturazione esistenziale della vita glielo avesse permesso.

E’ così che il romanzo è disseminato di molte sentenze e considerazioni sapienziali di cui alcune abbiamo anticipato nelle righe più sopra ma molte altre ne contiene di cui una (che mi appresto a indicare) mi pare di particolarissima valenza. Il suo (del protagonista) crollo di uomo(e dirottamento nella devianza) avviene quando lui, poeta già affermato, scopre che con il suo lavoro di poeta piuttosto che dare valore alla vita (come si era illuso potesse essere) ne ha certificato lo stato di smarrimento e confusione. E qui (o di qui) parte uno dei brani più significativi del romanzo. “Da piccolo ,io volevo fare il macellaio. Sbrigarmela tra ragionevoli filetti e costatine. Biologizzare e carnificare. Collaborare alla trasformazione di energia. Cibare. Volevo un lavoro timido e onorato, dove godesse la mano. Mi sognavo intarsiatore di cosce e garretti....Volevo perdermi, col consenso di tutto l’Areopago, nel sangue e nei nervi, sognavo di annegare in cascate di interiora,in trionfi di lardelle scintillanti, mutualmente evacuanti senso a fiotti, bioantropologicamente zampillanti , m’immaginavo scalanti montagne di lombi a fette, di Dentro allo stato puro, sanguigno quanto basta...Sinceramente carnale. VOLEVO PARLARE CON LE COSE E NON CON LE PAROLE” La sottolineatura di queste ultime parole è ovviamente mia nell’emozione del ricordo che quasi con le stesse parole avevo motivato, al tempo della mia direzione di Raitre, il senso della linea editoriale della Rete.

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