Lo slam è una maschera nuda (o una ’scimia’ che si chiama Tombo)

11 marzo 2017 12. Poetry Slam
Lo slam è una maschera nuda (o una ’scimia’ che si chiama Tombo)

[Introduzione a "Guida liquida al Poetry Slam", di Dome Bulfaro - Agenzia X Ed., 2016]

Questa storia è una storia che comincia da lontano. Una storia che comincia con altre storie che, almeno apparentemente, non hanno niente a che fare con lei.
Storie laterali.
Perché ogni storia, in effetti, è solo una serie di digressioni che fan finta di nulla e si atteggiano a far trama.
Ma poi, come vedremo, evidentemente tutte le strade portano (o, più semplicemente, hanno portato) allo Slam.
Almeno le strade che percorrono le parole, quelle contemporanee, che fan rumore e senso tutt’attorno a noi.

Per me la faccenda inizia più o meno nel 1989 quando, non ricordo neanche come, scopro che a Ginevra ci sarebbe stata una conferenza e un reading di Haroldo De Campos.
Altri fili, altre vicende: ho scoperto dell’esistenza dei Noigandres brasiliani, un gruppo di poeti delle Nuove avanguardie di cui Haroldo fa parte, inseguendo una parola letta nei Cantos di Pound. ‘Noigandres’ per l’appunto.
Cosa significhi nessuno lo sa, né lo spiega Arnaut, il trovatore provenzale che l’ha utilizzata secoli e secoli prima.
Una parola che non significa più nulla è una parola poetica per eccellenza, la puoi riplasmare, puoi farle tornare la memoria, puoi tradirla, tradurla, trasportarla altrove.
Cos’è la poesia se non questa digressione ostinata dal senso comune? E così, inseguendo Arnaut e Pound (che Haroldo aveva conosciuto) ero arrivato fino ai brasiliani e me ne ero innamorato.
Mi misi sul treno, arrivai a Ginevra, presi coscienza del fatto che il tenore di vita svizzero e i prezzi praticati m’impedivano l’accesso a qualsiasi locanda, sia pur d’infimo livello, dormii sonni scomodi nella sala d’attesa della stazione, vagabondai come si confà a un giovane aspirante poeta senza meta alcuna nella capitale mondiale delle banche e degli orologi, andai alla conferenza, rimasi affascinato da Haroldo, gli diedi il mio primo libretto di versi con audiocassetta, tesaurizzai il suo sorriso stupito quando seppe che ero arrivato sin lì solo per ascoltarlo parlare di poesia, ripresi il treno e tornai a cuccia. Da lì nacque un’amicizia mai più terminata con Haroldo e con i Noigandres (suo fratello Augusto e Decio Pignatari) e da quella l’invito a un Simposio in loro onore a Yale e da Yale una settimana tutta nostra (mia, di Haroldo e di Augusto) a New York e da lì, infine, la proposta, condita dalla risata di Haroldo, diabolica, immensa e travolgente come la sua barba bianca, di andare insieme al Nuyorican Poets café a guardare un Poetry slam…
Tutte le strade portano allo Slam.
La vita è un biliardo, si va di sponda la maggior parte delle volte.
E comunque ci vuole sempre un grande vecchio per indicare a un giovane la via migliore per essere giovane, per rischiare e per rinnovare.
Cosa sarebbe il mondo se non ci fossero i ‘cattivi maestri’?

Non mi scandalizzo mai quando qualcuno si scandalizza a proposito del Poetry slam.
È successo anche a me, quella volta a New York: una gara di poesia? Ma che bestialità sarà mai? A cosa serve? Che senso ha? Gareggiare tra poeti? Per vincere denaro? Puah!
E me lo diceva un poeta raffinatissimo, il mio Maestro. Lì ci si prendeva gioco di me!
Dissi no. Poi scesi nella hall e andai: un Maestro o lo segui ciecamente, o è meglio che tu provveda a trovartene un altro.
E fu bellissimo.
Haroldo ne rise per giorni… Lui la poesia la trovava dappertutto.

Né vi racconterò il seguito, perché lo fa assai bene Dome Bulfaro nel libro che queste mie parole servono ad introdurre.
Un seguito emozionante ed esaltante, fatto non soltanto da tutti gli slam che ho personalmente organizzato da quel 21 marzo 2001 (ormai esattamente quindici anni fa), quando quell’episodio newyorchese mi tornò in mente e con Nanni Balestrini e Luigi Cinque decidemmo che per festeggiare la poesia lo Slam sarebbe stato perfetto, o dall’idea di organizzare e realizzare il primo slam internazionale (Ricordi, Marc Kelly Smith, fratello mio?): fatto, piuttosto e soprattutto, dallo sforzo, a volte oscuro e sfortunato, di decine di altri poeti giovani e meno giovani che per anni vi hanno partecipato, o hanno iniziato ad organizzarne di propri, di festival generosi che l’hanno accolto, di intellettuali che l’hanno sostenuto, di un pubblico ormai grandissimo, ma ampio e folto fin da quella prima volta e che non l’ha mai abbandonato.
I loro nomi, almeno la maggior parte, li troverete nella cronaca che Bulfaro ne fa. Sono loro oggi il ‘corpo’ del Poetry slam, ciò che lo rende vivo, efficace, presente.

Lì, al Nuyorican, in ogni caso, iniziai a capire quanto lo Slam fosse una costola imprescindibile del movimento dello spoken word internazionale di cui già ero parte, e proprio perché era una gara. Perché ogni gara in realtà è un dialogo, ogni competizione è tendere al medesimo scopo (cum-petere), è più simile di quanto si creda a un dibattito, molto meno di quanto si supponga a un format televisivo. Perché durante la gara, grazie alla gara, si riconosce che la poesia (come ogni attività artistica) è un territorio conflittuale: è dal combattimento che può nascere qualcosa di nuovo, dal riconoscimento della nostra differenza affidato alla comunità, in cui – durante uno slam - si trasforma quel plantigrado ottuso e letargico che normalmente chiamiamo pubblico. Solo dal dialogo può nascere una lingua che ancora non c’è.
Una poesia non vale l’altra, una poetica nasce proprio dall’istituzione di una differenza.
Da questo punto di vista ogni poetica è un guanto di sfida: alle altre poetiche, al passato e al futuro.

È per questo che lo Slam ha bisogno di ‘movimento’.
Sia nel senso che ha bisogno di essere diffusamente praticato da una comunità, il più vasta possibile, che condivida non le poetiche, ché quelle più saranno diverse, più fertile sarà lo Slam, ma una serie di ‘valori’ comuni, di regole che ne fanno una cosa molto particolare e unica, che lo distinguano da una qualsiasi estemporanea di poesia, o da un certamen postmoderno con in giuria questo o quell’ermellino da guardia del feudo del mainstream, come quella che stabilisce che a giudicare sia una giuria estratta a sorte tra il pubblico. O quella che lascia all’EmCee la responsabilità di aprire la gara con uno speech che vale la parte del Corifeo che annuncia nella tragedia antica, quando si rivolge al Coro, tanto quanto al pubblico.
Perché non c’è mai uno slam uguale all’altro e non è vero che non ci sono brutti slam.
Anzi, ce ne sono addirittura di dannosi.
E questo non dipende mai dai poeti, ma solo dall’EmCee. Ed è sempre al ‘movimento’ che spetta di porre rimedio.
Ma lo Slam ha bisogno di ‘movimento’ anche nel senso che deve sempre essere capace di percorrere tutti territori della poesia presente, essere sempre un passo più avanti di dove i sacerdoti dell’Accademia si aspetterebbero di trovarlo. Pena la sua capacità di rinnovare veramente la poesia.

Perché uno slam serve a ‘in-segnare’ nuova poesia, cioè a lasciare un segno sul suo pubblico; di più: a inventare un pubblico che ancora non c’è, a trasformare quello che c’è in qualcosa che esso non può neanche immaginare.
Chi vince o perde davvero in uno slam, non sono i poeti, ma il pubblico: vince se riesce davvero a emozionarsi e a riflettere sulla poesia, a partecipare a prendersi per una volta la responsabilità di scegliere a proposito di forme (e cioè di emozioni e di pensieri); perde se si limita a far caciara, a ‘tifare’ per gli amici e gli amici degli amici.
Lo Slam è un gioco e riesce solo se chi gioca a quel gioco lo fa con la medesima serietà di un bambino, o di un campione di scacchi, di un maestro del Gioco delle perle di vetro, come avrebbe detto Hesse.
Il poeta porta a casa un lauro, o un po’ di soldi, il pubblico qualcosa di molto più importante e decisivo: la libertà e la capacità di scegliere, di dire no, la coscienza di aver diritto a selezionare le forme, le parole, tutte, e che questo è un diritto, non solo importante ma fondamentale. Abilità contagiose, virus che, se attecchisce, non lascia scampo.
Lo slam è una tessera di un mosaico più ampio, chiamato spoken word, arte della parola scandita: la poesia che riaccoglie la parola che torna dal suo esilio dalla voce.
Il suo contagio è efficace soltanto per questo.
Anzi, grazie al suo essere ‘pop’, alla sua grande diffusione, lo Slam è una sorta di termometro che misura lo stato di salute della poesia ‘performativa’. Tutti coloro che fanno spoken word dovrebbero frequentare slam, qualsiasi slam, tanti slam, e poi tornare sul palco dopo aver davvero dialogato con il proprio pubblico.

Tuttavia lo Slam fa scandalo. In Italia anche più che altrove.
Quale sarebbe, dunque, questo scandalo? La gara?
Eppure di gare se ne fanno a bizzeffe: le chiamiamo concorsi, premi, rassegne. E godono di fama ottima e integerrima (anche i peggiori e i più patetici tra loro).
I poeti sono comunque ‘in gara’, sempre: per pubblicare, per essere letti, o essere ascoltati.
I poeti sono – tutti o quasi – ferocemente competitivi (anche e spesso soprattutto nel senso peggiore del termine), oggi più che mai, perché gli spazi sono pochi, l’attenzione infima, i fondi più che miserrimi.
Chi può negarlo? E allora? Dov’è lo scandalo di un’altra competizione? Non sarà che lo scandalo sta tutto nel fatto che a giudicare, per una volta, sia pure per gioco, non siano i soliti noti: gli editor onnipotenti, le camarille accademiche e feudali, i critici, quasi sempre opportuni e opportunisti, di questo o quel quotidiano?
Non sarà che lo scandalo sta tutto nel fatto che il Poetry Slam ha deciso di essere quella che un vecchio, bizzarro autore siciliano, nato in contrada Caos, ad Agrigento, avrebbe definito una ’maschera nuda’?

Il problema, forse, sta tutto qua (e non è solo il problema della Slam, ma quello d’ogni arte, oggi): può una poesia nuova ed efficace, formalmente matura e sperimentale, giungere al ‘pubblico’ senza mediazioni?
Una volta a far da mediatori erano i critici, le istituzioni culturali, gli editori o la stampa.
Ma oggi? Oggi che i critici non hanno più strumenti se non per replicare il già detto e leggere il già scritto, oggi che i critici sono sordi e non sanno ascoltare la poesia che, joycianamente, si legge con le orecchie, che le istituzioni culturali sono svaporate nel nulla, che ogni pagina culturale è in quota a qualcuno, a qualche valvassino in versi di questo o quel feudatario politico-culturale: chi media oggi?
I social network? La marmellata Facebook, dove – senza contraddizione alcuna – si può sprecare un like tanto per Amelia Rosselli, quanto per Alda Merini?
Oggi la poesia nuova, quella che già vive nel futuro, DEVE giungere al suo pubblico (un pubblico che ancora non esiste, beninteso) da sola, contando solo sulle sue gambe e sui suoi ‘piedi’.
Non ha altra scelta, se vuole sopravvivere.
Non può farlo solo con il Poetry slam, beninteso: deve farlo più in generale con la pratica dello spoken word e con la riflessione profonda anche teorico-critica sulle nuove forme che va creando.
Ma non può farlo senza il Poetry slam, se non vuole trovarsi di nuovo tra le mani una rivoluzione senza radici, una jacquerie travestita da rivoluzione, tanto ‘poderosa’, quanto debole, un po’ da salotto, assolutamente ‘letteraria’, che dura lo spazio breve tra una restaurazione e l’altra.
La poesia senza comunità semplicemente non esiste.
Non basta, non basta mai, rinnovare le forme, occorre avere la capacità di comunicarle, di farle attecchire.
I cambiamenti che contano davvero hanno sempre l’aspetto (e l’odore) della ginestra leopardiana: si chinano umilmente al passaggio della lava e poi fioriscono di nuovo, spaccando il sasso duro che le ha ricoperte. Cos’altro è una rivoluzione?
Il Poetry slam è tutto questo: è questo salto mortale su un abisso vuoto per giungere in salvo dall’altra sponda, ogni poeta che fa slam è un atleta di parkour, un acrobata che si prende il rischio e che ne paga le conseguenze, se il salto non riesce.
Non è poco, anzi, oggi, è quasi tutto.

Alla faccia di chi lo accusa di ‘spettacolarizzare’ la poesia, lo slam non è mai solo spettacolo, ha a che fare con il rito piuttosto.
Il Poetry slam si può fare solo dal vivo (il corpo del poeta, il corpo del pubblico, a un passo). Guardarne una registrazione video, è esperire un feticcio.
Lo slam è un atto radicalmente politico: non solo perché riporta il poeta nella ‘polis’, ma perché rivendica il nostro diritto di essere ancora proprietari della lingua con quale parliamo, con quale amiamo e odiamo, con quale gioiamo e soffriamo, con la quale accettiamo quell’altro che ci sta di fronte ed occupa uno spazio che, se non ci fosse lui, potrebbe essere nostro, ma che, se lui non c’è, non avrebbe alcun senso di essere.
Siamo fatti di parole. Chi ce le ruba e ce le nega, ci ruba vita, uccide anche i nostri corpi, non solo la nostra mente. Lo Slam è poesia viva che si realizza e si esegue dal vivo.
La partita che si gioca sulle parole, sulla loro ‘proprietà’ non è partita che possa essere giocata solo privatamente, a tu per tu con libro, o partecipando con un click a un evento in Rete: dev’essere giocata corpo a corpo, davanti a tutti coloro che vogliano assumersi la responsabilità di una scelta comune e conflittuale.

E questo è pericoloso. Ma non perché l’oralità sia semplificatoria (anzi la poesia orale è radicalmente ed eminentemente più complessa di quella scritta), né perché perdere possa umiliarci. Anzi.
È pericoloso perché spesso, troppo spesso, chi va sul palco non ci va per sfidare, svegliare, emozionare il suo pubblico, ma per blandirlo, dissimularlo, confermarlo in ciò che già sa.
Ma è allora, quando nella competizione c’è solo competizione e non sperimentazione, rischio, gusto dell’imprevisto, che anche lo Slam uccide la poesia.
Poiché la poesia è sempre complice dell’imprevedibile, mai del già detto (e dal già sentito).

Voglio dire infine un’altra cosa, l’ultima, giuro, ma chiara: è vero, càpita, a volte spesso, che a vincere un Poetry slam sia una ‘brutta’ poesia, insomma una che a me non piace, càpita spesso che quelle che mi piacciono davvero finiscano per perdere, per essere eliminate (così come capita che a essere pubblicati siano i libri peggiori, i più facili e prevedibili, quelli che sanno solo impilarsi sulla colonna dei molti altri, coprendone la polvere, in attesa di coprirsene, a loro volta)
E allora?
Càpita anche che vincano quelle davvero ‘buone’, quelle che stanno tentando strade nuove, quelle che un editore oggi non pubblicherebbe neanche sotto minaccia di una pistola. Quelle che non venderanno nulla (ma qual è questa poesia che vende, poi?).
Ma sempre, anche quando perdono, quelle poesie ‘buone’ hanno avuto l’occasione di dire la loro alla pari con le altre, con quelle che scelgono la via più semplice, quelle che ammiccano, che fanno il volo del tacchino sulle ali comode della retorica più vieta.
Quel pubblico le ha sentite, imparerà ad apprezzarle e, alla fine, le riconoscerà e capirà che stava attendendo proprio loro.
Anzi a volte il pubblico si schiera con chi perde, delegittima la giuria, sceglie il suo campione contro chi casualmente ha totalizzato più punti di altri.

E in ogni caso: il bello del gioco è perdere, solo così resta dentro la voglia di giocare e dunque di rischiare e rinnovare, come ci suggeriva quel giocatore geniale che fu Tommaso Landolfi.
Colui che creò la storia della ‘scimia’ Tombo, che di notte fuggiva dalla sua gabbia e correva in chiesa per pisciare sull’altare.
Tombo fu uccisa dalle due ‘zittelle’ sue padrone, come è noto, con uno spillone acuminato e spesso questo certuni provano a fare con lo Slam.
Anche coloro che lo svendono al consenso facile, o provano a trasformarlo in un format innocuo e anodino.
Ma, a ogni nuova lettura della novella landolfiana, Tombo risorge e piscia nuovamente sull’altare, come fa lo Slam in ogni nuovo evento, appena dopo essere stato pugnalato dalle critiche balbuzienti delle vecchie ‘zittelle’ che appestano la poesia italiana.
Così, a volte, solo con la sua sconfitta, il poeta slam può rispettare sino in fondo il mandato che ha avuto dalla comunità: quello di usare le parole in modo nuovo, emozionante, libero, rischioso, efficace. Necessario.
Non se duole, perché sa che la vera partita, quella con i ladri di sogni, immaginari e parole, s’inizia a giocare dopo, immediatamente dopo la fine della gara, pronto come la ‘scimia’ Tombo a sgattaiolare dalla gabbia alla prima distrazione delle sue cariatidi carceriere.

Altro in Poetry Slam

Altro in Poesia