Sottomettere i demoni: un dialogo con John Giorno

1 settembre 2007 Interviste e dialoghi
Sottomettere i demoni: un dialogo con John Giorno

La prima volta che ho visto John Giorno non sapevo nemmeno chi fosse. Era un corpo nudo che dormiva in uno stupefacente video di Andy Warhol intitolato Sleep, un video che fece epoca, girato nel 1963 e che a me, più o meno diciottenne, capitò di vedere a metà dei ’70. Poi, qualche anno dopo, tra le dune di Castelporziano e i ‘barrage’ di Villa Borghese, nella celeberrima stagione dei Festival di poesia romani, Giorno lo incontrai di persona. Soprattutto incontrai la sua poesia, fatta di ritmi scanditi e parole secche, di energia scoppiettante, testi corrosivi, che John recitava saltellando sulle punte, come se, da un momento all’altro, stesse per prendere il volo.

Ricordo che fui particolarmente impressionato, a Villa Borghese, da un testo duro, ma bellissimo, Just say no to family values, che Giorno recitò alternandosi con Victor Cavallo, che ne leggeva la traduzione. Circa vent’anni dopo, nel 1996, sarebbe toccato a me, sul palco del Leoncavallo, aiutare John nella stessa performance.

Il traduttore era cambiato, ma John era sempre lo stesso: vederlo era vedere l’immagine viva della poesia, della sua assoluta necessità, della sua imprescindibile capacità di scarnificare e mettere a nudo il reale, recitare con lui significava accettare di essere percorso da scosse di energia, essere toccato dalla sua voce e toccare il suo corpo teso con la mia.

Ed è ancora così. I decenni scorrono su Giorno come acqua, rendono il suo viso più scavato, ma il suo sorriso sempre più giovane. E Giorno non si ferma mai: non smette mai di scrivere, di organizzare eventi, di viaggiare per il mondo. You got to burn to shine, come dice il titolo di una delle sue ultime raccolte: devi bruciare, se vuoi risplendere.

Così John macina vita e poesia, notte e giorno, dai tempi di Sleep, appunto, e del suo sodalizio artistico e sentimentale con Warhol, l’amicizia e i progetti artistici condivisi con alcuni dei maggiori artisti e poeti del secolo, da Keith Hearing a Bob Rauschemberg a Jasper Johns, da Brion Gysin a John Cage, Robert Mapplethorpe e Abbie Hoffman, oltre, ovviamente, all’esperienza poetica Beat, condivisa con autori come Ginsberg, Kerouac, Corso, Burroughs, con cui ha realizzato centinaia di performance e da cui solo la morte ha potuto separarlo. Non a caso uno delle ultime poesie scritte da John si intitola proprio Burroughs’s funeral, il Funerale di Burroughs.

Mi viene in mente, così, un altro ricordo legato a John, a me e al particolare rapporto che lo legava a Burroughs. Nel 1994, a Ginevra, un bravo poeta svizzero, Vincent Barras, aveva riunito nel teatro Alhambra una decina di poeti di tutto il mondo sotto il titolo La tribu à W. S. Burroughs, la tribù di Burroughs. C’era Giorno, c’erano i Sonic Youth e svariati poeti europei, tra cui io. Avrebbe dovuto esserci anche Burroughs, ma stava già male e all’ultimo momento dovette declinare l’invito. La situazione fu risolta da John, che chiese un telefono amplificato sul palco, glielo portarono e lui telefonò a Burroughs che lesse in diretta passi dal Pasto nudo. La voce graffiante di Burroughs veniva fuori dal telefono come se fosse elettrificata, tremava per l’energia e la distanza, ma non perdeva potenza e il corpo di Giorno sembrava ‘abitato’ dalla voce dell’amico lontano.

Eravamo tutti stupefatti dalla semplicità della soluzione e dalla perfezione della performance. La tecnologia scorporava, ma ci dava la possibilità di coprire istantaneamente migliaia di chilometri. Lui, Giorno, l’inventore di Dial A Poem, il sistema con il quale, telefonando ad un numero e pagando pochi centesimi, si potevano ascoltare 5 minuti di poesia, queste cose le sapeva bene, erano anni che portava la poesia in qualsiasi situazione, su qualsiasi supporto, dalle magliette ai CD, dal telefono ai fax. Era iniziata un’era nuova e chiunque ancora non se ne fosse accorto, beh, dopo quella serata all’Alhambra non avrebbe più potuto far finta di nulla.

Un decennio dopo, nell’era di Internet, Giorno è ancora lì, più avanti di tutti che ci spiega il miracolo grazie al quale la più antica delle arti, la poesia, è certamente la più ‘futura’ di tutte. Lui ha definito questo suo scrivere, produrre, editare, collocare, trasmettere la poesia, il Giorno Poetry System, un’organizzazione che ha prodotto performance e libri, CD e film, oltre a mettere in moto un’iniziativa importantissima contro la diffusione dell’AIDS.

Se gli si chiede cosa ricordi di quegli anni, degli anni ‘Beat’, la sua risposta non lascia dubbi: «Sesso, droghe e rock and roll, troppo non era abbastanza ed è stato totalmente miracoloso. E’ stata un’età dell’oro, ma anche ora è un’età dell’oro, in questo momento, benché con differenti colori..»

- Cosa sopravvive, oggi di quel periodo?

«Quello che definirei un grande stato mentale. Questi artisti hanno messo di fronte al mondo quella che è la vera natura della mente. Nulla sopravvive, ma loro hanno trasformato il mondo e continuano ad avere, ancora oggi, un profondo effetto su di esso»

- Puoi spiegarci cos’è il Giorno Poetry System?

«Ho dato vita al Giorno Potery System, nel 1965 con l’intenzione di aprire l’orizzonte della poesia. Prima c’erano libri e riviste, che erano meravigliosi, ma non sufficienti. Mi è sembrato evidente che un poeta potesse mettersi in contatto con il pubblico usando infinite altre situazioni. Infatti tutti i momenti di intrattenimento della vita comune erano occasioni possibili per la poesia, guardare la televisione, ascoltare la radio, i dischi, usare il telefono e andare a concerti rock. E ho fatto esattamente questo. Il Giorno Poetry System ha innovato l’uso della tecnologia in poesia, lavorando con strumenti elettronici e multimediali, creando nuove situazioni ed occasioni di comunicazione e mettendo in contatto la poesia con un nuovo pubblico. Abbiamo realizzato più di 50 LP e CD di poeti che lavoravano con performance e musica, audiocassette, videopacks, clip, DVD e film, libri, serigrafie dei Poem-Prints e Poem Paintings, e interventi su Internet»

- Certo, il tuo rapporto con la tecnologia è molto particolare, mi viene in mente il celeberrimo Dial A Poem...

«Nel 1968 ho creato Dial A Poem, mi è sembrata un’idea naturalmente grande e, un po’ per caso, ho innovato l’uso del telefono nella comunicazione di massa. Con esso per la prima volta il telefono è stato usato per comunicare con un vasto pubblico. Dial A Poem ha avuto un enorme successo ed ha ricevuto milioni di chiamate. Nel 1970 è stato presentato al Museum of Modern Art di New York, nello spazio riservato all’Informazione e ciò ha dato l’avvio all’industria del Dia-A-Qualcosa: dal Dial-A- Joke , al Dial-A-Sport, al Dial-A-Horoscope, fino al Phone Sex, ai famosi numeri 999. Dial A Poem ha aperto una nuova era nella telecomunicazione. E oggi internet è la più straordinaria tecnologia per facilitare la comunicazione della poesia. Oggi sempre più poeti si connettono attraverso di essa a sempre più persone, al di là di ogni più rosea immaginazione. Gli ultimi cinquanta anni sono stati un’età dell’oro per la poesia. Come mai prima nella storia del mondo»

- Tu sei un poeta schiettamente ‘orale’. Che rapporto c’è tra oralità e poesia?

«Le parole vengono dal suono, il suono viene dalla saggezza e la saggezza viene dal vuoto. Il respiro e la voce sono il veicolo. I miei poemi sono la messa in scena della mia mente.»

- Da un certo tempo vieni spesso in Italia, specialmente in Basilicata, dove hai appena terminato di girare il DVD 9 Poems in Basilicata, diretto da Antonello Faretta...

«Il mio DNA è completamente italiano, da tutti lati. Tutti i miei parenti sono emigrati dall’Italia a New York intorno al 1880. La famiglia di mia madre da Genova e mia nonna paterna era nata nel 1861 ad Aliano in Basilicata, la città di Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi. Negli ultimi dieci anni ho passato un sacco di tempo in Basilicata, lavorando a vari progetti poetici. E mi piace davvero quel posto.»

- Tu sei, da sempre, un poeta impegnato sul fronte della pace, ricordo la tua trasmissione radiofonica WPAX, realizzata con Abbie Hoffman nel 1973, che fu trasmessa da Radio Hanoi alle truppe americane stanziate in Vietnam. Che ne pensi dell’attuale politica USA?

«Bush e Cheney sono una vera catastrofe per l’America ed il mondo. Dilapidare enormi ricchezze nella guerra e uccidere inutilmente milioni di persone significa essere il diavolo incarnato. E’ molto triste.» Forse per questo la sua prossima raccolta di poesia, che sarà pubblicata da Soft Skull Press, a novembre, si intitola Subduing Demons in America (Sottomettere i demoni in America).

Altro in Interviste e dialoghi

Altro in Teoria e critica