Essere napoletani significa anche essere apolidi, coniugare le radici con la capacità d’adattarsi all’altro da sé, la nostra è un’identità meticcia e migrante – oggi si direbbe globale, o meglio, glocale – da sempre siamo terra di transiti e d’eterna immobilità.
In questo senso l’ultima fatica letteraria del poeta Mariano Bàino – lo ‘zibaldino’ titolato Anatre di ghiaccio, in cui con la solita maestria mescola aforismi e versi, elenchi di citazioni e brevi raccontini a metà tra l’antropologico e il filosofico – è certamente un libro assolutamente napoletano, e dunque assolutamente apolide, uno sguardo sul nostro mondo immenso e insieme rimpicciolito alle dimensioni di un PC Screen, che parte da Procida e percorre l’universo, senza perdere l’accento che fu di Galiani e Genovesi e di Totò.
Le anatre di ghiaccio sono quelle che – trasportate da un vortice sino ad altissime quote – piovvero stecchite e congelate su Worcester in una grigia mattina del 1935 e fanno da allegoria introduttiva a un viaggio nei luoghi comuni o invece in quelli assolutamente inconsueti e addirittura anomali del nostro pensiero e dei nostri stili di vita. Una vita da «anime corte», a cui, a millennio spirato e seppellito, non resta che sussurrare con educata ironia: «Après moi une petite pluie hygiénique».
Ma Bàino non rinuncia a vedere, a giudicare, a indignarsi, che si tratti dei fatti di Genova 2001 («Il manganello è un oggetto delicatissimo: riesce ad aprire una testa senza scalfirne le idee»), o delle conseguenze devastanti della privatizzazione selvaggia degli spazi («Il sole è di tutti; l’ombra, invece, la devi pagare»), dell’egoismo asfissiante che ci domina tutti («Vivere e non lasciar vivere. Non è un consiglio. E’ il vostro hobby preferito»), o invece del destino della sua città («città di mare con tabe / tanta che ti / zerisce a morte») stritolata, come tutti i poveri del mondo, nello scontro devastante dei più forti («A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare. Tu non hai voluto nulla, ma ora che sei l’ultima cosa da dividere, che faranno quei due?).
E via così, in un travolgente pot-pourri che alterna prosa a poesia, ironia a rabbia, arguzia sardonica a tenerezza sconsolata e che mette in moto tutto l’armamentario culturale di un poeta che è anche un indefesso viaggiatore, un cuoco, un pescatore, un abile nuotatore, un amante mai pentito, un pedagogo professionista e che è capace di armonizzare tutto questo con la stessa sagacia con cui in letteratura ha fatto andare a braccetto dialetto e poesia visiva, sperimentazione formale e temi eticamente forti, critica letteraria e capacità di tradurre e tradire tanto dal francese quanto dallo spagnolo.
Il tutto condito con un’immarcescibile voglia d’utopia, un desiderio di rischiare il desiderio («Non si ha diritto alle cose impossibili – è stato detto. A volte sono le cose impossibili ad avere diritto a noi, appostandosi fra i nostri doveri»), un’ineducata indisponibilità a rassegnarsi, a darsi per vinto, perché, a dirla con lui, «forse le ali tarpate sono un difetto dell’aria».
Mariano Bàino
Le anatre di ghiaccio
Ed. l’ancora del mediterraneo