C’è da restare sgradevolmente stupefatti a leggere le dichiarazioni di vari leader dell’Ulivo a proposito di finanziaria: da Fassino a Rutelli, via Padoa Schioppa e Bersani. Prima di tutto perché sembra di assistere a un rituale di suicidio politico: dopo aver rischiato di perdere le elezioni dichiarando di voler tassare BOT e azioni e averle poi vinte per un soffio grazie a un programma che prometteva equità sociale, come si può pensare di dire che per far cassa si colpiranno pensioni, sanità e scuola? Il problema è che se, come sostiene con nonchalance quel brav’uomo del segretario DS, si ritiene che il programma sia superato dopo appena tre mesi, allora la gente comune avrà tutti i diritti di sentirsi presa per il naso. E se deciderà di non andare più a votare, allora non sarà qualunquista, sarà saggia. Non abbiamo votato Prodi perché facesse le stesse cose di Berlusconi con una casacca diversa. Né spettacolo migliore viene dalla sinistra-sinistra e dai sindacati, che insistono per diminuire l’entità della manovra: insomma chiedono uno sconto. In realtà, e lo sa chiunque, per rimettere in piedi sanità, scuola, università, trasporti, rete viaria, per risanare il territorio e per offrire un futuro ai giovani occorrono altro che 30 miliardi. 30 miliardi sono pochi, pochissimi. Il problema è un altro: è decidere chi li deve pagare, se i soliti noti, o invece, per una volta, chi in questi lustri, mentre la gente si impoveriva, tirava su immense fortune in una nazione dove evadere le tasse era diventata una virtù.
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