Si tratta del mio contributo al secondo e-book Non è lavoro sul nulla realizzato dalla redazione di Formavera e dedicato alla definizione di cosa sia oggi l’ispirazione.
Ci sono parole che il tempo usura, delegittima, fa a pezzi, che diventano inutilizzabili, pericolose, inopportune. Ci sono delle parole-paria. Per esempio ‘comunismo’, coperta d’infamia dai regimi del cosiddetto socialismo reale, o ‘rivoluzione’, totalmente détournée, in#azionata, adulterata: chi oggi vorrebbe più fare una rivoluzione, visto che quotidianamente siamo molestati dal susseguirsi di rivoluzioni di ogni genere: tecnologiche, scienti$che, sessuali, antropologiche, dei costumi, e chi più ne ha, più ne metta. La rivoluzione per noi, non è più un sogno, ma una materiale e concreta causa di stress, inadeguatezza, depressione. Il nostro desiderio è senza nome, scriveva Mark Fisher tempo fa. E potrei continuare con guerra, opposizione, violenza, famiglia, lavoro, identità, valori ed ovviamente democrazia. Ecco, ‘ispirazione’ è una parola di questo genere, una parola-paria, inutilizzabile, anche se, come tutte le sue consorelle, stava lì ad indicare qualcosa di importante, un signi$cato in qualche modo necessario ed indispensabile, ma per il quale non abbiamo più il nome. Le parole, insomma, a quanto pare, tendono ad estinguersi, come le specie animali e vegetali: divengono ‘inadattabili’ a quel determinato contesto, a quell’ambiente. Così, il solo parlare di ‘ispirazione’ in poesia non potrà che farci sollevare, con ironico sussiego, il sopracciglio. Eppure chiunque faccia il poeta sa bene che quella parola un suo senso l’aveva: stava ad indicare una particolare condizione emozionale e ri#essiva che permette lo stabilirsi di un delicatissimo equilibrio psico$sico il quale determina, in maniera sostanziale, la nostra capacità di realizzare poesia, cioè di realizzare un particolare ‘fare’, di natura spiccatamente artistica, estetica. 29Quindi quel qualcosa che una volta chiamavamo ‘ispirazione’ c’è ancora (visto che c’è ancora poesia), anche se non sappiamo più come chiamarlo e non sappiamo più come chiamarlo, probabilmente, perché da tempo, da troppo tempo, non ri#ettiamo più su cosa esso sia ‘praticamente’ per noi, e tutte le precedenti spiegazioni non possono che apparirci super$ciali, sciatte, incredibili, totalmente inadeguate. O invece perché siamo così distratti e super$ciali (nei confronti della poesia e del nostro ‘presente’) da accettare acriticamente parole che ormai non dicono più nulla o, se dicono qualcosa, rischiano di tracimare nel ridicolo. Allora probabilmente il primo passo da fare è proprio questo: ri#ettere su cosa sia, oggi, per noi questa roba indistinta che una volta si chiamava ispirazione. Lo farò per quello che mi riguarda e per come ne sono capace. Si potrebbe iniziare sgombrando il campo dalle ipotesi più note, che sono spesso quelle meno convincenti. L’ispirazione certamente non è qualcosa che venga da fuori (a qualcuno sì, ad altri no), un a’ato che inspiriamo (divino, o sacro, o $nanche psichedelico), non c’è alcuna Musa a cui rivolgersi per ricevere ispirazione e sicuramente aveva ragioni da vendere Baudelaire quando a!ermava che l’ispirazione è lavorare tutti i giorni. Essa, anzi, a me pare una condizione ‘interna’ che sta tutta dentro di noi e che poi permette alla poesia di venire fuori: in un certo senso è ciò che permette un’espirazione. È una particolare disposizione della nostra mente e, integralmente, del nostro corpo (respiro), a farsi attraversare dalle parole senza chiedere loro nulla rispetto al loro ‘signi$cato’, ma provando piuttosto a desiderarle e ad accoglierle per il loro ‘senso’. Una condizione in cui il nostro pensiero, che pensa (con, in) parole, viene pensato dalle parole, un ribaltamento radicale dei compiti e degli scopi del linguaggio, una dissipazione intensissima in cui non è progetto, né poetica, ma soltanto suono e senso. In cui l’io del poeta non solo è assente, ma pernicioso: è la condizione del rimbaldiano Io è un altro. È quello stato in cui le parole passano e si posano nella mente (e sul foglio) sulla base di logiche assolutamente stocastiche, aleatorie. Sono sedimenti portati dalle onde. 30Per altro verso l’ispirazione ha strettamente a che fare con la respirazione, con la respirazione corporea, intendo. Quando c’è, quello è il momento in cui, pur silenziosamente, chi compone ha la percezione precisa di come risuoneranno quelle parole, una sorta di chiarissimo ‘ascolto interno’, un momento in cui si respira come se si parlasse, anche restando in assoluto silenzio. Una ‘dinamica’ che riguarda i polmoni e il cuore, prima ancora che la mente o il linguaggio. Riguarda la capacità di percepire quella che Celan chiamava ‘la svolta del respiro’. Tutto questo ovviamente non è la ‘poesia’, è solo la sua materia, ma è determinante. Questi detriti, queste scorie che restano, questi pesci morenti che si agitano nella rete sono la poesia prima del poeta. Egli è il primo a vederli, a cercare signi$cato nel senso pulsante del loro ostinato sussistere davanti a lui. Il poeta, da questo punto di vista, non è qualcuno che scrive, o dice, ma, innanzi tutto, colui che legge, che ascolta. Il primo di tutti: è l’Ur-lettore. Da lì inizia il progetto, da lì le scelte formali. Da lì il lavoro. Ma in poesia, come in $sica, non c’è lavoro senza energia. L’ispirazione è probabilmente questa energia, intensissima, che produce lavoro, il lavoro esattissimo, letterario, cioè linguistico, ritmico, melodico, che trasforma quella prima geometria, a volte indistinta, in matematica, in una formulazione di forme che può essere ‘falsi$cata’ e quindi è quella giusta, o almeno tale appare al suo autore. Un’altra cosa che potrei a!ermare con qualche certezza è che l’ispirazione è un fenomeno elettrico, come ogni altra cosa che sia viva. Come anche la poesia. Un testo poetico, una poesia, è, a mio modo di vedere, come una ‘terna’ ad alta tensione: induce campi elettromagnetici tutt’attorno, fa sentire la sua elettricità ben prima di toccare con le mani il testo (i $li), di leggerlo a fondo, è quello sfarfallio (sonoro e semantico) che immediatamente percepiamo, sin dalla prima lettura, prima di decidere di lasciarci attraversare dalla scarica elettrica vera e propria. Di approfondire quella lettura (o quell’ascolto) perché ci scavi nel profondo. 31Ma quella dell’ispirazione e quella poesia ‘$nita’ sono elettricità distinte, diverse, per certi versi inconciliabili. Almeno quanto l’elettricità ‘metereologica’ è di!erente da quella che accende la lampadina sulla nostra scrivania. Una ordinata, prevedibile, progettabile, gestibile, l’altra caotica, imprevedibile, àpeiron, scostamento (bias?), in qualche modo, fondamentalmente, entropia. È precisamente nell’equilibrio, sempre concepibile, ma mai certo, tra caos e ordine che si situa il luogo della poesia. Il poeta è qualcuno che tende agguati alle parole, per intrappolarle. E le attende, le spia, ne segue le tracce, ne studia le abitudini. L’ispirazione è, poi, anche questa lunga, paziente attesa della preda. Ognuno di noi ha i suoi riti, credo, per ingannare quest’attesa, per favorire quella condizione che ci annuncia l’arrivo della preda. Tutto per avere in$ne quell’energia, o, se preferite, quella ‘materia’, da cui poi il lavoro estrarrà delle forme. Da questo punto di vista, insomma, ognuno di noi ha le sue pratiche (più precisamente le sue prassi) per far sì che quell’energia scocchi, che quell’attesa si compia in epifania, tanto corporee quanto mentali, che attengono al pensiero, quanto al respiro: ognuno di noi ha il suo yoga, o il suo tai-chi dell’ispirazione. Il mio, se a qualcuno può interessare, è fatto dalla creazione di un ambiente sonoro, musicale, sempre identico per tutto il tempo durante il quale lavoro a quel testo, o a quel gruppo di testi. Questo mi permette di tagliare fuori il rumore di fondo del mondo e tentare di ascoltare i passi delle parole. Quei suoni e quelle melodie che tornano sempre uguali funzionano come un foglio di carta millimetrata per permettermi di orizzontarmi in una geogra$a di parole potenzialmente in$nita, o come uno sfondo si cui le $gure del linguaggio si stagliano con maggiore precisione; regolano il mio respiro in modo da renderlo costante e ritmicamente ‘signi$cativo’, fanno eco ai suoni silenziosi delle parole che mi ‘trascorrono’ in mente, come fossero cartine al tornasole sonore. 32Non ascolto la musica, faccio qualcosa di diverso, che non saprei spiegare sino in fondo, ma che certo ha attinenza con la possibilità di rubare a quei suoni la loro energia, con la voglia di eseguire quelle stesse sequenze sonore con tutti gli strumenti del linguaggio. E quindi di scegliere, individuare, scoprire le parole giuste, o almeno quelle che poi mi appariranno tali. Uso la musica come un pesce pilota usa il suo squalo, o la sua razza, o la prima imbarcazione di passaggio: per parassitarla e trasformare i suoni che si lascia dietro in senso e in parole. Ma questa è soltanto la mia maniera. Immagino ce ne siano di in$nite altre. Ed anche a me capita di catturare parole o frasi in momenti del tutto diversi. Arrivano e basta. Prima non c’erano, poi sì. E per questo non ho alcuna spiegazione ‘razionale’ o argomentabile, se non la necessità dell’accadere, che, mi rendo conto, non è molto. Qualcosa come quello che intendono coloro che usano sostanze psichedeliche quando dicono che quella sostanza gli ‘è risalita su’ a distanza di tempo. A volte, poi, da quei sedimenti (da quelle tracce) non nasce nulla, o non nasce un testo ma un titolo: non una dinamica, ma una tassonomia. A me è capitato con Piccola cucina cannibale. La prima cosa che mi è stata chiara è stato quel titolo: un titolo senza il testo, l’indicazione di un’assenza, ma non di una qualsiasi assenza, bensì di quella precisa assenza che il titolo indicava. Era, ossimoricamente, la forma esatta di un desiderio. Quell’energia poteva produrre soltanto un certo lavoro, non qualsiasi lavoro. E si tirava dietro la voglia di colmarla, quest’assenza. Così, dentro il titolo, per attrazione magnetica, si sono agglomerate le parole del testo, quasi fossero limatura di ferro: prima il senso generale, poi il loro signi$cato, quando quella limatura è precipitata nel suo calco. Soltanto dopo aver in qualche modo terminato il testo mi è stato chiaro che quelle tre parole non erano soltanto il titolo di una poesia, ma una vera e propria dichiarazione di poetica ed è questa la ragione per la quale poi l’intero libro, di cui il testo eponimo fa parte, si è intitolato così. 33È forse utile sottolineare che, almeno per quanto mi riguarda, ogni volta che si torna su un testo (e nel mio caso questo succede moltissime volte, anche a distanza di tempo) l’approccio richiede prima di tutto che si crei di nuovo quell’energia di cui sopra, senza la quale non sarebbe possibile il lavoro, sia che si tratti di interventi strutturali, che di lima. Da questo punto di vista ogni volta che si riprende in mano un testo occorre riaprire la porta – mentale e corporea – che ci porta sino ad esso. Ma questo momento, quest’ispirazione, se proprio la si vuole pronunciare di nuovo questa parola-paria e globalmente inadeguata, non occorre soltanto all’autore, occorre ugualmente al lettore (o all’ascoltatore). Leggere (ascoltare) una poesia è una prassi che richiede una particolare disposizione, un’intensità e un’attenzione che non sono richiesti per testi o ascolti di altro genere. La poesia, come dicevo, è un fenomeno elettrico e perché la scintilla scocchi c’è sempre bisogno di una di!erenza di potenziale e questo riguarda tanto chi la poesia la scrive (o la compone, o la esegue ad alta voce), quanto chi la leggerà (o la sta ascoltando). Se poeta, insomma, non si nasce, ma lo si diventa, questo vale anche per il lettore. Al fondo c’è sempre la scoperta di una ‘disciplina’. Quello che mi è certamente chiaro, è che, per quanto bravo ed esperto sia l’arte$ce, la forma $nale di una poesia dipende sempre più dalla poesia che dal suo autore. L’autore è piuttosto qualcuno che scopre, mai qualcuno che crea. Proprio per questo ri#ettere su cosa sia l’ispirazione mi appare sensato. Proprio per questo la vista dell’Io del poeta tra le parole spesso non fa altro che annebbiare ciò che già scintilla di suo. L’ispirazione, questa particolare ‘disciplina’ attinente alla poesia, sta lì a confermarlo.