Una periferia a cui manca il centro.
È difficile tentare l’analisi di una produzione insieme così tanto ‘precoce’, ma, per altri versi, del tutto matura come quella di Alberto Dubito e dei Disturbati dalla CUiete.
Quello che rimane tra le mani – a causa della brusca interruzione della loro attività – è come una serie di tasselli di un’unità esplosa: alcune parti sono rimaste visibilissime, altre probabilmente sono irrimediabilmente perdute.
Il fatto poi che l’edificio di cui si parla non fosse affatto completato, ma avesse di contro fondamenta solidissime e un profilo ormai spiccato e riconoscibile non fa che complicare le cose.
Ciò che toccherebbe fare allora sarebbe un’archeologia del futuro, un paradosso, quanto di meno prevedibile e ‘filologico’ si possa immaginare.
Vale dunque la pena di provarci, a piccoli passi, ma con la certezza che tutto terminerà, per il critico, con uno scacco.
Anzi proprio in nome di questo scacco e come sgarbo scaramantico a ogni filologia.
Tenterò dunque soltanto una prima ricognizione, a partire da un topic certamente decisivo nella produzione di Dubito e che probabilmente non è solo un topic, un ‘contenuto’, ma è anche un suggerimento formale prezioso per avvicinarsi al nucleo caldo delle parole e delle musiche, delle performance di questo giovane artista e del suo complice, DJ Sospè.
Mi riferisco alla ‘periferia’, che torna ossessiva in tutta la sua produzione, direttamente chiamata a comparire, o allusa, implicata, celata sotto le mentite spoglie di questo, o quel panorama esistenziale.
Ciò di cui parlo, si badi bene, è però uno scenario, antropologicamente, poeticamente e urbanisticamente assai lontano dal luogo comune del rap come CNN del ghetto. E, ancor di più da certe periferie pasoliniane, più o meno miracolosamente baciate da primigenia innocenza.
Intanto perché il ghetto, la periferia a cui fa cenno continuamente la scrittura di Dubito è qualcosa di molto diverso dagli slum dei primi anni 80 e poi perché ciò che Dubito fa è molto più che una denuncia, per quanto radicale, delle condizioni di vita penose e discriminate di questa o quella minoranza.
Ciò che Dubito cerca è lo strappo nella rete, il buco nel muro attraverso cui sfuggire a questo spazio, una dinamica che sia capace di essere insieme una fuga e l’atto fondativo di una realtà nuova, compiutamente immaginata e ancora incompiuta: ed anche questo, a pensarci bene, è fare ‘archeologia del futuro’.
Ma procediamo con ordine.
La periferia è ciò che sta intorno, etimologicamente. Stare in periferia significa dunque essere parte di un circondare, di un assedio, essere in prima linea verso l’esterno, essere l’ultimo brandello di ‘dentro’, vivere lungo la circonferenza di un cerchio.
Ma cosa accade se il castello che si sta assediando, se il centro di quella serie di circonferenze concentriche che è un assedio, svanisce, o anche semplicemente sfugge all’orbita e tende a posizionarsi sempre dove meno lo si aspetta?
Cosa accade se il centro, a cui ogni periferia si riferisce, diviene nomadico, si dissolve in un gioco di specchi che non fa che replicare un confine che nessuno potrà mai oltrepassare, poiché l’andare dentro coincide, sostanzialmente, con l’andare fuori?
Una periferia a cui manchi un centro è sostanzialmente una retta che si avviluppa su se stessa, una figurazione alla Escher, o un anello di Moebius. È uno spazio che non ha più un ‘fuori’ e un ‘dentro’, è un luogo totale e diffuso, una rete infinita di relazioni insensate, illeggibili, percorribili solo a patto di non pretendere di trasformare il vagabondare in un viaggio, o in un percorso.
La geometria svanisce, per lasciare il posto a landscape frattali, che producono condizioni topograficamente‘quantiche’, in cui ormai la certezza della misurazione (e dunque del giudizio), o dell’orientamento è inimmaginabile.
Non a caso quelle di Dubito sono periferie ‘arruginite’, luoghi corrosi da miliardi di passi, incrostati da disillusioni infinite, irrimediabilmente intaccati alle fondamenta, città addormentate e narcotizzate, vittime di una terapia del dolore, che nel momento in cui annulla la sofferenza e l’angoscia consegna chi la pratica a un sonno che nega ogni futuro, a quello che potremmo definire, per l’appunto, un tempo ‘periferico’.
È per questa ragione, a mio modesto avviso, che quando si rivolge alla sua piccola città di provincia, pure così integralmente ‘globalizzata’, Dubito urla: «cara città, sveglia!»; è questa la ragione per cui il nostro è, per lui, un «paese per vecchi», gli unici a cui sia concesso ancora ricordare il tempo in cui un qualsiasi percorso (un qualsiasi progetto) era immaginabile, proprio quelli che hanno fatto in modo che oggi questo non sia più possibile: «ho quasi vent’anni e già non vedo oltre le mie mani».
La periferia, al di fuori del bipolarismo con il centro, spiazzata da una dialettica oppositiva, si tramuta in un luogo totalizzante, che è ben peggio di ogni ghetto: a tenere prigionieri non è un muro da abbattere, un confine da violare, ma più radicalmente l’impossibilità di qualsiasi orientamento.
Ma questo luogo induce poi un tempo a lui simile, un tempo, cioè, altrettanto ‘periferico’, freneticamente immobile, smisurato e inafferrabile. Un tempo che non scorre, ma stagna, un tempo che ci precipita addosso e ci annega d’istanti, tutti troppo simili, indistinguibili.
Un tempo che non è più ciclico, né lineare, ma che piuttosto si limita ad avvolgersi su stesso, come un loop rimasto incantato sul disco rigido della nostra esistenza.
La periferia esistenziale
Vivere in un tempo periferico, e quindi scandire quasi urlando: «sono l’epoca che vivo / la rivolta che mordo» è qualcosa di fondamentalmente diverso dal sentirsi al centro di un presente che è quello comune della rivolta (magari contro un “centro”), è piuttosto il diario di una ricerca di qualcosa che si muove sempre e che non è mai dove ci si aspetta che sia, è essere ingabbiati in una epokhḗ, in una “sospensione”.
Ciò che occorre trovare è allora lo strappo nella rete, quel punto della realtà dove essa si scolla dalle percezioni più scontate e apre prospettive e vie di fuga.
Mordere la rivolta, strapparle quanto ha ancora di commestibile, sputando via il tumore che ogni rivolta ha in sé (e che le farà rinnegare se stessa, nel momento stesso in cui vincerà), cibarsene per rinnovarla, immaginare una rivoluzione che renda di nuovo possibile la rivoluzione: solo così è possibile resistere. Una ricerca di slancio, una quête della forza apparentemente immensa che serve a vincere l’inerzia e che può essere innescata solo a patto di scoprire il punto critico in cui la relazione tra le forze che ci immobilizzano le neutralizza, l’attimo, l’istante, il particolare, l’indizio che può aprire un varco: è questo a cui sono votate le parole di Dubito.
C’è un suo strano scritto, apparentemente una prosa minore, intitolato Elenco delle cose comuni di cui non si parla (o se ne parla troppo poco), che è un inventario di momenti minimi, d’istanti quotidiani, azioni apparentemente senza alcuna importanza: «La frazione di tempo che esiste tra l’inspirazione e l’espirazione in situazioni normali. La provenienza e la composizione del nero sotto le unghie. (…). La frequente abitudine delle persone di guardare dentro al fazzoletto dopo essersi soffiate il naso. Il perché gli uomini rispondendo a una domanda spesso si toccano o grattano la barba sotto il mento o le basette. (…) Il modo in cui viene buttata la sigaretta una volta finito di fumare. Il vero seno ovvero il solco tra una tetta e l’altra (concezione di seno dell’antica Grecia appunto al singolare). Lo scroscio del piscio nell’acqua del water. Le bolle nelle pozzanghere quando piove. (…) Il non riuscire a mettere a fuoco l’occhio di qualcuno quando lo si guarda da troppo vicino. L’instabilità quando si cammina sui sassolini».
Si tratta di notazioni minime, apparentemente di nessuna rilevanza, dicevo, ma a guardare meglio s’intravedono chiare le tracce di una ricerca che tenta di scovare la verità e il senso nelle pieghe della quotidianità. Quasi che Dubito ricordi le parole di un grande poeta in musica, ben più anziano di lui, il Leonard Cohen di Anthem : «there’s a crack in everything / that’s how the lights get in».
In realtà ha ragione Dubito. Sia perché a parlare delle bolle nelle pozzanghere si potrebbe finire a discutere di Plank e dei buchi neri, o riflettere sul respiro potrebbe suggerirci che, come vedremo, è esattamente nell’istante apparentemente sospeso tra inspirazione e espirazione che sta la voce di ogni poesia, sia perché in uno spazio e in un tempo così sconsideratamente estesi, immobili e non misurabili, ogni particolare ha in realtà la medesima importanza e per una volta tanto la verità potrebbe nascondersi, come la lettera rubata di Poe, proprio dove tutti potrebbero vederla e dove nessuno, proprio per il suo essere evidente, è capace di vederla.
La via di fuga che permette di nuovo di dare senso potrebbe essere dovunque e dunque anche il modo di gettare via una sigaretta ormai consumata può dirci molto su chi la fuma, a volte più di milioni di parole.
L’unica maniera di sfuggire al paradosso ha da essere paradossale: «Fratello mio, io riparto da dove gli altri non hanno più visto la partenza e la data di scadenza, che era cinque minuti fa.»
L’arte di tenersi vivi, svegli, reattivi in questa situazione di affollatissimo isolamento fa conto su gesti minimi, ma essenziali, la posta in gioco è assolutamente decisiva, il tempo, incalcolabile, è però percepibilmente velocissimo, ci sfugge: «devo scrivere il mio tempo prima che lui scriva me».
Occorre scoprire il prima possibile: «come dare una forma al mio secolo / prima di adagiarmi inconsciamente sulla sua».
Il giovane uomo che vive questo tempo dell’indifferenziato è in cerca di percorsi, ma non può che essere un vagabondo.
L’unico luogo rimasto a questa “generazione di pentole a pressione”, la periferia arruginita in cui sta crescendo già consapevole della condanna a invecchiarci, è impraticabile, poiché è un luogo che non permette di immaginare un “oltre” ed è una periferia dell’anima che a volte non lascia scampo.
I luoghi (quelli geografici e quelli del testo) vengono così continuamente (e a volte freneticamente) ripercorsi e riproposti.
Ogni testo, ogni poesia, ogni bridge e ogni chorus, è un tentativo di mappatura esistenziale, pezzi del quale possono però trasferirsi senza colpo ferire in un’altra mappa, disegnata da una prospettiva diversa, in un altro testo, vissuto e scandito da un Dubito già diverso da quello di un attimo fa, eppure spasmodicamente alla ricerca di se stesso e dell’altro da sé: «Poi appari tu / e in due siamo già dispari».
La periferia poetica
Potrebbe essere un gioco interessante e non avaro di risultati critici tentare una mappatura di tutti gli influssi letterari e poetici che sono evidenti nella scrittura di Dubito: da Leopardi ai Public Enemy, da De Andrè fino alla poesia sperimentale, da Dada a Zanzotto e agli Assalti Frontali, la scrittura di Abe frulla e macina tutto e con quella sabbia fa nuovo cemento per nuove costruzioni, assolutamente personali e inconfondibili.
Anche in questo caso verrebbe facile chiosare dicendo che persino poeticamente quella messa in atto da Dubito, prima del testo e per il testo, sia archeologia del futuro.
Anche in questo caso Dubito si muove in periferia, ruba e riusa stando ai margini, va al cuore del canone, solo per saccheggiarlo e fuggire via lungo la tangente per tornare ai margini e stipare il suo covo di sempre nuova refurtiva.
La sua è una scrittura che vive, così, di attriti tra registri differenti, di temerarie fughe in avanti, così come di spericolate retromarce, ironiche e sarcastiche, in cui l’io lirico, pur maltrattato, continua a vivere una sua vita ‘minore’, ma centralissima ed indispensabile, in cui le tradizioni e le sperimentazioni, le avanguardie e le sconfitte si scontrano e si mescolano, anche a costo di rischiare il disordine formale e stilistico.
Conscia del suo destino in connubio con la musica la poesia di Dubito ama le anafore, le litanie, gli elenchi, affida lo scarto sempre alla metonimia, è avara di metafore, si immagina tagliente, incalzante come certi antichi canti di guerra, ma è pronta a scovare dietro l’angolo di ogni nuova ‘figura’ la scintilla di senso nuovo che può incendiarlo insieme a chi lo ascolta.
Sta lì a dimostrare come l’unione tra poesia e musica possa essere prima, dopo e soprattutto senza alcuna ipostasi ‘melodica’, ma sia piuttosto fondata sul ritmo (quello cardiaco tanto quanto quello prosodico).
Credo che in questa sede sia però più interessante riflettere sulle ‘forme vocali’ del suo operare, riflettere insomma non tanto sulle forme della sua scrittura, quanto su quelle della sua esecuzione, del suo farsi voce e respiro.
Il lavoro di Dubito sul respiro, che è il suo primo e fondamentale strumento artistico, il suo accelerarlo e rallentarlo, gonfiarlo sino al grido, forzarlo a velocità apparentemente eccessive, senza però rinunciare alla chiarezza della scansione sillabica (e dunque al senso dell’enunciato) è un tentativo di scarnificare la parola di tutte le sue croste ‘storiche’ e culturali, è un tendere a tornare alle origini del dire per ridare ‘centro’ alle parole nel loro essere pronunciate, che è poi l’unico modo che hanno di non perdere ogni senso.
Il suo scandire affannato ha un preciso codice anche scritto: le parole sono spesso interrotte da un punto fermo che sta per pausa, che rende la prosodia singhiozzante, che dà indicazioni ‘a spartito’ assolutamente chiare per un’eventuale performance. Che fa del testo poetico un codice segreto da banda metropolitana, comprensibile solo a chi respiri come lui.
Sembra quasi che Dubito tenti di fare ad alta voce, con la pronunzia e con il respiro, ciò che Emilio Villa fece con la scrittura.
La scommessa è quella di accelerare, spesso parossisticamente, la scansione, di precipitare le frasi (speso sintatticamente piuttosto complesse e incuranti di ogni rima) per far sì che la parola nasca esattamente in quell’attimo che sta tra inspirazione ed aspirazione di cui parlava il frammento citato poco fa. Occorre dissipare la parola attraverso la sua vocalizzazione, perché essa si depuri sino all’essenziale e ricominci a svolgere il suo compito, che è quello di mettere in relazione gli esseri umani tra loro e con il mondo.
La scelta è, dunque, quella di caricare la parola di energia, per trasformarla in un agire capace di ‘toccare’ l’altro.
Se è stata poesia quella di Dubito, e a mio parere lo è stata, allora è stata poèsie-action, alla maniera di Julien Blaine, di J.L. Vitton, dello sciamanesimo performativo di artisti come Serge Pey, o Humberto Ak’abal.
Essa è avvenuta in luogo tanto periferico alla letteratura, da non appartenerle affatto.
Ma Dubito è uno sciamano globalizzato e medializzato, le sue radici sono di ferro arrugginito, le sue litanie sono campionate e generate elettronicamente, i suoi uccelli, al contrario di quelli di Humberto che cinguettano, parlano in una lingua fatta di bip, bit e beat, il suo palo de lluvia è riempito di frammenti di silicio.
Il ritmo che scandisce, però, è quello ancestrale del respiro che si fa gesto ed azione.
La periferia musicale
Lo stesso discorso fatto per le ascendenze poetiche potrebbe essere qui ripetuto anche per l’aspetto musicale: sono evidenti i tratti di un’eclettismo’ che è in realtà il sintomo di una smisurata fame di scoprire, sperimentare, conoscere, replicare e reinventare.
Anche se in questo Dubito non è solo, con lui c’è Davide Tantulli – Dj Sospè, l’altra metà del cielo dei Disturbati dalla CUiete.
Dubito conosce la musica – ha studiato sassofono alle medie – ma non è un ‘musicista’: questa è la parte che tocca a Dj Sospè, anche se la sua partecipazione è sempre attiva e creativa.
Ad ascoltare si rimane stupiti per la varietà d’influssi differenti che fa dei Disturbati dalla CUiete una posse rap assolutamente sui generis: se è hip-hop l’ispirazione di fondo (quella che, più che melodie, fa comporre beat e loop) poi la libertà è assoluta, dal rock al jazz, dall’elettronica al dub, al drum&bass, all’heavy metal e al punk, le sonorità si inseguono e si ‘negano’ l’una con l’altra, si mescolano e si smascherano reciprocamente e persino nel terzo e ultimo CD, in cui si sente evidente la mano di un producer hip-hop esperto e raffinato come Bonnot, spunta inaspettatamente un violino a sparigliare le carte.
Nomadismo e meticciato musicale, dunque, praticati e reinventati stando per la maggior parte alla periferia delle grandi produzioni, con il coraggio, quando se ne dà l’occasione, come nella collaborazione per una rete generalista come La 7, di non abiurare, ma anzi, in alcuni casi, di rendere quest’atteggiamento sonoro ancor più radicale.
Va detto, tra l’altro, visto che l’hip-hop è ormai un continente, che i Disturbati anche in questo campo non si pongono confini, contando soprattutto sulla grande competenza e fantasia di DJ Sospè, sempre pronto a nuovi ascolti e a nuove riproposte, pescando qua e là, dall’old style ai BBoy, dalle sonorità ‘sinfoniche’ dei Cypress Hill, sino al rap più militante di gruppi come gli Assalti Frontali, i 99 Posse, o i Colle del Fomento, intriso di ‘identità’ e rabbia politica e sociale: « Il concetto ci fa caldi, Distubati. army / Musica con l’elmetto, facci pista / Non ho partito né nazione, s(u)ono sempre antifascista».
E spesso è proprio dalle proposte musicali del DJ e producer trevigiano, dai colori, dai mood sonori che lui mette sul tavolo, che partono poi gli input per i testi di Dubito.
Sempre pronto, dopo, a testo fatto, a intervenire e a suggerire modifiche, a cambiare, insieme con Sospè, sino ad arrivare ad un risultato musicalmente condiviso.
La cifra comune, che fa l’identità di queste sonorità così sparigliate, eppure inconfondibili dopo il primo ascolto, capaci di fare ‘stile’, o se preferite, ‘cifra’, è poi, come nel caso dei testi e della loro scansione, la ricerca continua di energia, di ‘potenza’: « E sfondo le casse quando canto / le casse toraciche più quelle dell’impianto».
I suoni sono stirati e accumulati, le tracce si sovrappongono e collidono, si ‘disturbano’ e fanno pensare agli strati di colore affastellati sulle tele di Pollock, o si squarciano (la voce, prima di tutto, sempre sul punto di spezzarsi, di infrangersi come vetro) come cretti di Burri.
E l’aspetto utopico di questa musica è proprio il suo farsi urlo con l’urlo di Dubito EmCee, il suo sostenerlo e insieme gareggiare e combattere con la potenza e la precisione ritmica della voce di Dubito, è musica d’assalto, musica che, lungi dal fare da fanfara, si vuole essa stessa arma del conflitto, che è uno scontro tanto di corpi quanto di immaginari: « scrivo una tempesta / affinché gli cada il cielo in testa».
Ma fare musica, praticando insieme una forma di utopia è la cosa più difficile che io riesca a immaginare, perché sarà una musica che richiederà ai suoi ascoltatori un impegno intensissimo, la grande disponibilità a rinunciare a ogni ‘luogo comune’ auditivo, il coraggio di mettere in gioco ogni sicurezza e di andare ad ascoltare i Disturbati con quella stessa adrenalina che richiederebbe uno scontro di piazza.
Solo che in questo caso si tratterà di combattere con le proprie maschere, musicali tanto quanto esistenziali.
Occorrerà assumersi il rischio di passare per non udenti, sarà necessario avere il coraggio di andarla a scovare in periferia, dove l’amusia è una sconosciuta, questa utopia musicale che scommette tanto sulle orecchie, quanto sull’etica e sul domani.
Lo dice anche Dubito, a fare così: «finisci a fare musica per sordi come noi / e ti capisco / ma questo è il rischio di chi spera».