Interviste e dialoghi

Intervista a Lello Voce sul Gruppo ’93 – RIVISTA DI STUDI ITALIANI – Università di Toronto (2021)

Che cosa fu il Gruppo 93 e quali intenzioni portarono alla sua formazione?

Nel 1989, a latere del festival internazionale Milanopoesia, fu organizzato un incontro tra una serie di giovani poeti e svariati esponenti delle neoavanguardie (tanto poeti, quanto critici), ma non credo che alcuno tra di noi stesse realmente pensando a formare un gruppo, meno che mai qualcosa di simile al Gruppo 63. 

Ciò  che era chiaro era semplicemente che esisteva, a giudizio di tutti i partecipanti, la necessità di voltare pagina, dopo anni in cui a farla da padrone erano state le poetiche “innamorate”, orfiche, neo-liriche, riproponendo un modo di comporre poesia che fosse capace di essere uno strumento di conoscenza del presente e delle sue contraddizioni, non consolatorio, ma direi “leopardianamente” progressivo, sia a livello formale che per quanto riguardava ruoli e compiti della poesia e dei poeti in quel presente. L’idea era che occorresse un rinnovamento formale radicale capace di interpretare realmente la contemporaneità. 

Il lavoro di riflessione teorica, sia a livello formale che “politico” era in atto da tempo ed era molto approfondito, ma veniva portato avanti in modo sostanzialmente autonomo da gruppi di autori, così come da singoli: Kryptopterus Bicirrhis, Altri luoghi, Baldus, affiancati da personalità singole come Caliceti, Campo, F. Costa, Mesa, Moroni, per dire.  Ma il riferimento ai gruppi “storicamente” legati al 93 non dà conto completamente dell’intensità della riflessione sulla poesia e in poesia degli anni tra il 1985 e il 1989. C’erano singolarità che non confluirono affatto nel 93 ma che comunque avevano e manterranno rapporti strettissimi con molti dei suoi componenti e che erano altrettanto impegnati in un percorso di rifiuto del neoorfismo lirico di quegli anni, penso al già citato Mesa, o a Frasca e Mansueto, o a riviste come Altri Termini, Symbola, Invarianti.

Prima del Gruppo 93 c’erano state una serie di iniziative (antologie, convegni, dichiarazioni festival) che in qualche misura, nemmeno troppo ipotetica, ne costituiscono il prologo. 

Le Tesi di Lecce, l’antologia di Lunetta e Cavallo, Poesia italiana della contraddizione, edita da Newton Compton, una lunga polemica letteraria che ne era scaturita e che aveva proiettato una serie di absolute beginners, come noi di Baldus, sulle pagine dei grandi quotidiani nazionali, come Repubblica o il Corriere, il mutamento di indirizzo di un grande festival, Milanopoesia diretto da Gianni Sassi, editore di Alfabeta, che con il ritorno di Nanni Balestrini, alla fine del suo esilio parigino, si riapriva bruscamente alle avanguardie e alla ricerca formale, la nascita di alcune riviste, Baldus e Altri Luoghi, la presenza di un dibattito intenso a livello teorico che stava coinvolgendo e persino “sedimentando” tra loro figure eminenti della poesia, della critica, unite, per intanto, proprio dall’interesse mostrato nei confronti di una serie di giovani autori che facevano cose chiaramente opposte a quelle del mainstream degli anni 80, penso ai Novissimi, allo stesso Anceschi, a Menna, a Leonetti, a Luperini, Barilli, Ceserani, in un dialogo così fitto da coinvolgere persino personalità certo lontane, come quella di Fortini, che non fu parco di critiche, ma non fece mancare interesse e in alcuni singoli casi persino approvazioni. E così via.

L’idea e anche una certa insistenza sulla necessità di formare un gruppo vennero piuttosto da autori della neo-avanguardia, come Giuliani o in parte, Balestrini, Barilli, Leonetti. Mi pare di ricordare che l’idea di chiamarlo Gruppo 93 venne in mente ad Alfredo Giuliani, in una cena in un ristorante milanese. Dopo il 63 ecco il 93. Questa era l’idea. 

Il problema era che il nome manteneva la rima, sì, ma, per intanto, eravamo nel 1989. 

È stato allora che a qualcuno di noi di Baldus, non ricordo se a Cepollaro o a me, che non eravamo affatto entusiasti di fare la riedizione di alcunché, vennero in mente due cose: intanto che 93 era il “ribaltamento” di 63 e poi che il 93 sarebbe stato l’anno in cui il Gruppo si sarebbe sciolto, per sottolineare come fossero molte più le cose che ci dividevano tra noi e con le neoavanguardie di quelle che pure, indiscutibilmente ci univano. Da questo punto di vista, per noi che lo fondammo, il Gruppo 93 era piuttosto il Luogo 93 o il Tempo 93, se si preferisce. Era stabilire un tempo e un luogo perché tutta la riflessione sino ad allora messa in campo dai gruppi (redazionali o di poetica) e dai singoli potesse tramutarsi in dialogo, polemica, scontro tanto tra noi che con la neo-avanguardia, facendolo con la coscienza che la posta in gioco non era la “vittoria” di una di queste poetiche sull’altra, quanto la capacità di approfondire sempre più la riflessione teorica e la prassi formale. Ed era importante per noi farlo “pubblicamente”, con la polemica e l’intervento anche quotidiano, con la “comunicazione”, in un momento in cui il riflusso neo-orfico rischiava (come poi è accaduto in realtà) di trasformarsi ancor più generalmente in una grande abbuffata di lirismo e forme morte ed inefficaci, sia formalmente che politicamente. 

Ciò  che avevamo in comune con il Gruppo 63, e con tanti altri gruppi di avanguardia e sperimentazione artistica era una prassi (la discussione pubblica, l’analisi spietata dei testi altrui, il dialogo e il confronto costanti) più che un contesto o una ascendenza teorica.

Ma questo non doveva e soprattutto non poteva confondersi con la riproposta meccanica di poetiche che ci sembravano per molti versi altrettanto superate, come quelle delle neo-avanguardie, anche se costituivano per noi l’unico punto di riferimento possibile per riprendere un discorso di ricerca e sperimentazione che la stagione innamorata stava seppellendo sotto orfismi e lirismi di ogni genere e sempre più a buon mercato. Era stato Porta a sdoganare la parola innamorata e i suoi esponenti e Porta era stato un esponente del Gruppo 63, per esempio. Noi guardavamo con grande interesse a figure laterali, che dell’orbita del 63 avevano fatto parte come Rosselli, Cacciatore, Vicinelli, Costa, Spatola, ma che certo non potevano essere confusi con l’aspetto spiccatamente “letterario” della maggior parte dei rappresentanti del 63, con l’eccezione dei soli Balestrini e Pagliarani, noi eravamo affascinati da figure completamente off, come quella di Emilio Villa, o Calzavara dall’enciclopedismo laico, officinesco ed entusiasmante di Leonetti. 

Peraltro quell’edizione di Milanopoesia, che ricordava Porta con la partecipazione di tutti Novissimi superstiti, fu anche quella di Fluxus, del Situazionismo, dell’oralità poetica e della Polipoesia.  Ed il 93 è nato allora. Quindi davvero il Gruppo 93 è stato in realtà il Luogo 93, o il Tempo 93. 

Credo sia utile riproporre qui quanto ho scritto recentemente in un breve saggio dedicato a ricordare Nanni Balestrini:

Il ’63, a detta di Sanguineti, era stato un orizzonte comune per poetiche diverse, noi di orizzonti non ne vedevamo già più, ma forse era possibile ripartire dal qui ed ora, da uno spazio, da un luogo, da un dialogo comune. Era nato il Gruppo 93. Ribaltamento del ’63, già con la data di scioglimento iscritta nel suo DNA. (…) Loro ci chiedevano una Terza avanguardia, noi davamo loro qualcosa di molto diverso: un coacervo di problemi e intuizioni, di forme mutanti e contenuti nuovi, che certamente appartenevano al patrimonio della poesia di ricerca e di sperimentazione, dell’anti-lirica, o magari ricordavano accenti, toni e strumenti formali d’avanguardia, ma che erano declinati in modi e per scopi del tutto differenti, con orizzonti radicalmente cambiati. 

Loro erano le Neo-avanguardie, noi i figli del Postmoderno — almeno noi di Baldus a partire dall’intuizione di Cepollaro — che volevano uccidere il Postmodernismo, che gli era toccato in sorte come contesto irrespingibile, per realizzare una cosa che allora chiamammo postmodernismo critico

Loro ci volevano avanguardisti e sperimentali, noi ci sentivamo, più che altro, esploratori. 

Magari non volevamo affatto uccidere il padre, ma non avevamo alcuna intenzione di recitare la parte dei nipotini dell’avanguardia. Né volevamo avere nulla a che spartire con l’ennesima riedizione di un io lirico che ci sembrava un vecchio ed inefficace arnese, usurato e ormai inutilizzabile. Per noi il ruolo normativo della tradizione era definitivamente tramontato e ciò che ci che occorreva era cominciare a costruire una comunicazione nuova. 

Eravamo definitivamente altrove e pretendevamo che se ne prendesse atto.

Quali erano le specifiche delle diverse anime che componevano il Gruppo e come si sono coordinate? Quali furono, a suo avviso, gli elementi di comunanza tra le poetiche del Gruppo 93?

Intanto andrebbe notato un aspetto geografico che tira in ballo Napoli (Baldus, ma anche Krypto), Genova (Altri luoghi, ma anche Frixione organico al Krypto), Reggio Emilia e comunque l’Emilia Romagna (Caliceti, Costa). Ne vengono escluse le capitali storiche della poesia e della letteratura italiane: Roma e Milano. 

Certo, a Milano si svolsero molti dei nostri incontri, ma la matrice culturale del Gruppo 93 rimane sostanzialmente “provinciale” ed estranea agli ambienti letterari milanesi e romani.

Queste anime erano poi molto diverse tra loro e non sarei a mio agio a tentare qui una lettura delle caratteristiche formali degli altri nuclei e dei singoli che parteciparono al Gruppo 93, che è faccenda da storici e critici della letteratura. 

Posso per  notare una serie di caratteristiche comuni, che certamente c’erano e che erano ben più estese della comune ostilità alle poetiche neoliriche.  Per esempio un atteggiamento “allegorico” (per riprendere la definizione che ne diede all’epoca Luperini) e cioè la comune convinzione che la poesia dovesse confrontarsi con il presente, il testo dialogare con il contesto, prendere posizione e, dunque, direi una comune postura “politica” in cui le forme erano un modo per denunciare, analizzare, smascherare una serie di caratteristiche e contraddizioni sociali e politiche, ma anche linguistiche e dell’immaginario, proprie del capitalismo maturo; una comune attenzione alle tecnologie e alle loro conseguenze sulle forme poetiche (oralità di secondo grado, generazione automatica del testo, utilizzo dei mixed media e predisposizione alla performance); la necessità di uscire dal cul de sac del bipolarismo Avanguardia/Tradizione; la convinzione che il campo letterario non fosse un luogo irenico e pacificato, ma che anzi anch’esso fosse luogo di scontro per la conquista di un “capitale simbolico” da cui dipendeva, in qualche misura l’efficacia del nostro lavoro e che dunque, storicamente, i minori (e le letterature e le lingue minori) fossero degli sconfitti a cui spesso occorreva ridare voce  (da questo punto di vista le assonanze tra Baldus e Altri luoghi sono direi clamorose, sia pure esperite attraverso percorsi diversi); la predisposizione a fare una poesia che, pur non essendo esplicitamente “impegnata”, non mancava mai di entrare nei problemi e nelle contraddizioni del presente; un interesse verso il Pop inteso nella sua accezione più ampia, l’interesse verso la comunicazione e l’impegno nella produzione della poesia (editoria, festival, convegni, eventi); la disponibilità alla contaminazione e al pastiche, ma anche l’interesse per le forme chiuse e  per gli aspetti metrici e ritmici del testo poetico. 

Nonostante il Gruppo 93 abbia annoverato nelle sue fila anche romanzieri, va detto poi che, a mio avviso, si è trattato di un evento sostanzialmente “poetico”: era la poesia l’arte che era al centro delle riflessioni e delle produzioni del Gruppo (come anche, imho, per il 63) ed è stata la poesia il campo di scontro più rilevante di tutte le polemiche e i dibattiti che sono nati all’indomani della sua fondazione.

Non è questo il luogo adatto per sviluppare un’argomentazione così complessa, ma direi che, a guardare in controluce, sin dall’inizio del dibattito nel Gruppo è stato chiaro che c’era una differenza fondamentale tra poesia e romanzo, una differenza “artistica” nel senso kunderiano del termine, sostanzialmente irriducibile, che la, presunta, comune letterarietà non bastava a neutralizzare, ma che anzi ne usciva rafforzata. E che al Gruppo interessava prima di tutto la poesia, che veniva sentita come più “contemporanea” ed efficace del romanzo per intervenire nel nostro presente, svincolandosi da tutti i ricatti produttivi e merceologici che affliggevano il romanzo.  

I dubbi sulla sostanza letteraria della poesia, sulla sua fondamentale “non letterarietà”, erano irrespingibili, d’altra parte, se ci si confrontava con il lavoro di autori come Vicinelli, Spatola, Costa, e degli stessi Balestrini, Leonetti e Pagliarani. 

Da questo punto di vista la lettura che molti degli esponenti del 93 davano e hanno dato dell’eredità delle neo-avanguardie ha frantumato ancor di più l’immagine di gruppo coeso che circolava allora a proposito del 63. Non c’era stato un solo 63 e la parte che a noi interessava di più era precisamente quella più ai margini di quella galassia e che probabilmente, almeno per noi di Baldus, non comprendeva tutti i Novissimi.

Quale fu il rapporto con l’editoria dell’epoca, come fu percepito allora dall’ambiente culturale il Gruppo 93 e quale fu la sua ideologia?

Il rapporto del Gruppo 93 con l’editoria è sempre stato estremamente precario, se si fa eccezione per l’interesse di editori piccoli, come Manni, o addirittura minimi come Cooperativa Intrapresa. 

Diciamo che la strada al cambiamento aperta dal 93 è stata sagacemente sfruttata (e per fortuna nel caso di alcuni autori, anche se certo non in quello di tutti) dai Narratori Cannibali, venuti alla ribalta proprio a quel convegno di Reggio Emilia del 1993 che nasceva in buona misura, con la presenza carismatica quanto fantasmatica di Anceschi, proprio per ufficializzare la fine del percorso del Gruppo 93. 

Quel bisogno di “trame”, di “storie” nuove, veloci e cinematografiche ma capaci di épater, a cui molti allusero alla nascita di Gioventù Cannibale e dei suoi autori, non aveva alcunché o ben poco a che fare con le riflessioni portate avanti nel triennio precedente dal Gruppo 93. 

Il disinteresse con cui la maggior parte della stampa e della critica hanno poi seguito il prosieguo del dibattito poetico successivo (dopo averne invece parlato abbastanza diffusamente nel triennio precedente) ha certamente a che fare anche con la precedenza accordata a qualcosa di più notiziabile e “comunicabile”.  L’editoria mainstream è stata assai più generosa con i giovani Cannibali di quanto non fu con i poeti del Gruppo 93.

Insomma, per un’ennesima volta, il romanzo si era mangiato la poesia, anche se nulla di simile alle riflessioni teoriche riservate (bene o male, felicemente o infelicemente) dai componenti del 93 alla poesia, sia mai stato prodotto dagli autori di Gioventù Cannibale in quegli anni e nei successivi. 

Non a caso, con l’eccezione di Caliceti e Campo in narrativa, mia e di Ottonieri in poesia (ma per i poeti si tratta di eventi rapsodici), nessuno degli autori che parteciparono alla vita del Gruppo ha mai avuto accesso alle grandi collane italiane. 

Ciò  ha a che fare, certamente, con un aspetto spiccatamente “feudale” dell’editoria italiana di poesia, diretta da circoli chiusi e camarille, succube e spesso complice di un’accademia polverosa e da decenni impegnata a promuovere la mediocrità che le garantisce di non ammodernare i suoi vetusti strumenti di analisi. Le collane di maggiore visibilità, almeno quelle sopravvissute alla sventagliata di crisi economiche che hanno ferito a morte un settore già minimale in una nazione con le percentuali di lettura e di analfabetismo funzionale dell’Italia, penso alla Bianca Einaudi o allo Specchio Mondadori, erano da decenni e sono ancora oggi dirette dagli stessi personaggi impegnati o a lasciare spazio solo a propri cloni, complici o alleati, o a soddisfare il gusto rapsodico e spesso ineducato del curatore. 

D’altra parte, gli anni di fine secolo non hanno registrato, con l’eccezione di Manni, la nascita di realtà più piccole ma capaci di dare prestigio alle loro scelte. Di conseguenza, con la fine delle riviste di poesia cartacea, la produzione di molti di noi ha avuto, editorialmente parlando, una vita stenta e piuttosto limitata. 

Qualcosa è cambiato con la nascita delle e-zine letterarie e dei lit-blog, ma questo è un altro discorso, che, per la sua ampiezza, non è possibile qui neanche accennare, se non per segnalare la presenza vivace di molti autori del Gruppo 93 in alcune delle esperienze “digitali” più diffuse e note dall’inizio del nuovo secolo ad oggi, penso, per esempio, ad Absolute Poetry e a Nazione Indiana

Altro ancora sarebbe da dire sui Festival di poesia e su quanto (soprattutto grazie all’infinita attenzione e generosità di Gianni Sassi e Nanni Balestrini) essi abbiano aiutato molti degli esponenti del Gruppo 93 a restare vivi e visibili soprattutto a partire dagli anni Zero. Ma anche questo è, ovviamente, un altro discorso che è il caso di rimandare ad un’altra occasione.

Non credo, poi, che sia possibile parlare di un’ideologia del Gruppo 93, proprio in ragione della sua poliedricità; credo piuttosto che il 93 abbia affermato con chiarezza di non credere alla morte delle ideologie, che abbia sempre inteso il linguaggio stesso come strumento prepotentemente ideologico e non neutro e che questo fosse, peraltro, uno dei punti maggiormente polemici nei confronti della poesia neo-orfica e neo-lirica di quegli anni. 

Il poeta non poteva appellarsi ad alcuna purezza o irenicità nei confronti del reale, vi era coinvolto e compromesso e prendeva partito in esso, tanto poeticamente quanto politicamente. 

Per quanto riguarda poi me personalmente direi che sono stato sempre convinto che la prima scelta politica richiesta a un poeta sia una scelta formale capace di individuare linguaggi nuovi e sostanzialmente estranei ai diktat dell’industria culturale e delle sue merci. 

Questo certamente non deve essere risultato troppo rassicurante alle sinistre Sinistre italiane che già da decenni avevano eletto la cultura della borghesia liberale a monumento di civiltà e a proprio faro estetico ed artistico.  Ma non è possibile sognare nuovi sogni con parole vecchie, meno che mai con quelle della grande tradizione borghese, che in letteratura significa, sostanzialmente, romanzo e poesia lirica. Stampa e non oralità. Accademia e non ricerca e sperimentazione. Vale per la letteratura come per la pittura, la musica e ogni altra arte.

Come ha influito sul suo percorso la partecipazione al Gruppo 93?

È stato uno stigma di cui vado particolarmente fiero, se ci si riferisce alle mie vicende editoriali, o ai miei rapporti con la critica “accademica”. 

Se ci si riferisce invece a quanto mi abbia arricchito, direi moltissimo, artisticamente, teoricamente ed anche umanamente. 

Mi ha insegnato a stare dalla parte dove sceglievo di stare e non da quella in cui gli altri si sarebbero aspettati che io fossi. Mi ha insegnato che comporre poesia è immaginare un progetto di senso ed accettare il rischio di vederlo cambiare radicalmente nel corso della scrittura, mi ha insegnato a rischiare. E ad accettare, con serenità, tutti problemi che questo comportava e continua a comportare nei rapporti con l’accademia, con la stampa letteraria, con la critica “ufficiale”.

Il Gruppo 93, paradossalmente, mi ha insegnato a stare da solo, se occorre, se vale la pena di farlo per verificare una scommessa poetica a cui magari nessun altro, in quel momento crede. A scrivere per un popolo che ancora non c’è, come l’avrebbe detto Deleuze (o Dante).

Ci potrebbe parlare del suo rapporto con avanguardia, neoavanguardia e tradizione letteraria?

Credo che la specificità poetica e formale mia personale e di Baldus stesse proprio nella capacità di vedere, leggere, proporre in modo nuovo il rapporto tra avanguardia e tradizione. È stato Baldus a sottolineare per primo, nelle Tesi di Portici, dell’’89, che non esisteva più un valore normativo della tradizione e che dunque qualsiasi ipotesi avanguardistica, o neo-neo-avanguardistica avrebbe inevitabilmente assunto un carattere manieristico ed inefficace. 

Ma ciò  non ha significato l’arrendersi alla marmellata in cui tutto si confondeva, ma anzi il tentativo di riportare attrito nel grande irrelato, patinato trovarobato del postmoderno. 

Per noi, o almeno per me, la tradizione non è mai stata sinonimo di canone, né è mai stata concepibile al singolare. C’erano le tradizioni, plurime, plurali, contraddittorie, un serbatoio cui attingere per immaginare nuove forme. Per riportare la storia dove c’era o ideologia canonica, o indistinto esercizio consumistico nel mercato delle pulci del “vintage”. Nessun interesse archeologico, dunque, piuttosto una necessità “romanica”, di ricostruire a partire dalle rovine, adattandole, forzandole a dire cose nuove. 

D’altra parte, il titolo stesso della rivista era un’esplicita dichiarazione di poetica, si riferiva a Folengo e lo faceva in modo percettibilmente differente rispetto, per esempio, al Triperuno sanguinetiano. Tirando al centro della scena persino i dialetti. 

La stessa pratica citazionista, da me personalmente praticata allora e per anni, era molto diversa dal citazionismo a cui si riferiva Jameson. Era concepita, benjaminianamente, come una vendetta, si portava dietro, con scelta cosciente, le pratiche combinatorie della poesia concreta e il “barocco” linguacciuto di Haroldo De Campos, tanto quanto l’essenzialità tagliente delle sue opere visive.

Baldus, o almeno ciò  che per me era Baldus, e dunque la mia stessa poetica, non aveva, esplicitamente, nulla a che fare con una scelta d’avanguardia. 

Nasceva piuttosto dalla coscienza dell’impraticabilità di ogni filosofia della storia e dunque di ogni ipotesi storicista. Nasceva da Deleuze e Guattari, da Foucault e dai Noigandres (che con la tradizione europea ed amerinda avevano adottato la strada “cannibale” di Oswald De Andrade), più che dall’esperienza delle avanguardie storiche o delle neoavanguardie italiane. E aveva alla base la necessità di ricostruire una comunicazione nuova, complessa, ricca, capace di conoscere un po’ meglio il reale e le sentimentalità che lo abitavano. 

Nasceva da una sconfitta (quella dei movimenti del ’77 e del punk) non da una rivolta in qualche misura vincente o da un qualsiasi boom economico. Faceva parte, a mio modesto avviso, di un clima, di una sequenza storica ormai totalmente diversi. 

Il Gruppo 93 ha poco a che fare con il 900, il Gruppo 63 ne è parte integrante, oltre che uno dei suoi capitoli più felici dal punto di vista artistico: probabilmente quello conclusivo. 

Il Gruppo 93 non è il capitolo finale della storia del Moderno, ma il primo, qui in Italia, di qualcosa di diverso, che non recideva i legami con la poesia sperimentale e di ricerca, ma che non accettava di seguirne pedissequamente le tracce.

Come ho avuto modo di dire, ormai tanti anni fa, nel 2003 al convegno bolognese per il quarantennio del Gruppo 63: «(…) vorrei ripartire da una frase che ha detto Sanguineti stamattina, una frase molto interessante, che era: après moi le déluge! Bene, a questo io mi sento di rispondere qui, con estrema chiarezza: et moi, je suis le déluge… E aggiungo: e sono nato a Chiasso. (…).

È stato importante per noi confrontarci con la loro esperienza, ma se loro avevano solo un orizzonte comune, noi non avevamo nemmeno quello, avevamo da costruire anche quello e abbiamo provato a farlo, rimettendo insieme i pezzi, a partire dall’’89 e a partire da un postmoderno che per noi non era un punto d’arrivo, non era una scelta, era uno stato di fatto, un contesto, non un ismo a cui aderire, è per questo che allora parlavamo di postmodernismo critico: perché nell’’89 questa generazione, che come giustamente ha detto Frasca è la prima che è nata col televisore, ha iniziato a vivere letterariamente proprio mentre crollava il muro di Berlino, e da quel momento in avanti nel mondo è iniziato qualcosa che tutti noi non sappiamo ancora cos’è, ma che certo appartiene integralmente a noi e alla mia generazione, così come il boom economico e il mondo bi-polare appartenevano integralmente a loro, al Gruppo  63.

E allora, per favore, almeno questo lasciatecelo: il Postmoderno è nostro… Giù le mani!»

Non eravamo gli ultimi esponenti della tradizione dell’avanguardia, ma i primi protagonisti di un cammino nuovo e, a quei tempi, in buona misura inimmaginabile e di questo sono fermamente convinto. 

D’altra parte, già nel ’95, in un saggio pubblicato su Allegoria, mi era capitato di affermare:

«Se la Tradizione esorcizza il futuro, la dinamicità insita in ogni sistema di rappresentazione ed espressione, nell’immobilità atemporale, armonica e stagnante, di ci  che è una volta e per tutte, virus che locupleta anxiety of influence, l’Avanguardia, per parte sua, non tratta meglio il domani, ma esclude ogni musiliana nostalgia del futuro: convinta com’è di essere già il futuro, essa convive con un’angoscia da superamento, sorta di anxiety of tomorrow e non concepisce un’altra Avanguardia dopo di sé, ma preconizza — a intervalli più o meno regolari — la morte dell’arte, risoluzione definitiva di ogni contraddizione fra testo e contesto, tra arte e vita. In entrambi i casi si sostituisce il dialogo con la Storia, nella sua complessa e multiversa globalità, col rapporto esclusivo, e in qualche misura miope, con una certa serie storica che si suppone unica, prevedibile, diretta a, poiché Avanguardia e Tradizione sono figlie del medesimo ventre molle storicista. (…)

Ne nasce, inoltre, un paradosso e cioè che, se l’Avanguardia è strategia tesa a conquistare tutta la posta in gioco, ad occupare il centro della semiosfera artistica e se si accetta l’anacronismo grazie al quale sarebbe possibile definire avanguardia tutte quelle poetiche e quelle strategie culturali che in questo compito sono riuscite, allora la Tradizione rischierebbe di non essere altro che “genealogia delle avanguardie“».

I sospetti nei nostri confronti, cordialmente espressi, insieme a sinceri apprezzamenti, più di una volta da quello che è stato certamente il teorico più acuto e poliedrico delle neo-avanguardie italiane, Edoardo Sanguineti, per l’appunto, ne sono, in qualche misura, una prova. Molto meno lo è stato con i narratori nostri coetanei: non è un caso.

Un aspetto particolare del mio rapporto con le tradizioni, ma anche con la tradizione dell’avanguardia, è stato poi, allora ma anche negli anni successivi al 93, quello dell’oralità, della performance, del rapporto con la musica che hanno poi costituito la caratteristica principale del mio lavoro. Ma si tratterebbe di un’analisi che richiederebbe troppo spazio per essere sviluppata in questo contesto. Mi limito quindi a segnalare tre scritti piuttosto esaustivi, pubblicati su rivista (il verri, In pensiero) o su siti web (Alfabetadue) e cioè: A mio modesto avviso, Per una poesia ben temperata, Avviso ai naviganti (con Gabriele Frasca).

Quali sono state le diverse immagini del Gruppo 93 elaborate a posteriori da coloro che vi parteciparono, dalla critica e quale la sua ricezione?

Credo che se si volesse fare una storia delle fake-news letterarie dell’ultimo quarto del Novecento, la vicenda del Gruppo 93 meriterebbe un capitolo tutto suo. 

Nonostante quanto detto più su a proposito delle nostre posizioni teoriche e a dispetto di una messe piuttosto pingue di scritti, in spregio persino dei testi e delle performance poetiche che venivano prodotti, la “vulgata” della società delle lettere allora e in buona misura anche oggi è che il Gruppo 93 sia stato un fenomeno “epigonale”, una neo-neo-avanguardia prodotta da quelli che allora, parafrasando ci  che era stato detto per altri, furono definiti “i nipotini del Gruppo 63”. 

Come ho provato a suggerire sin qui le cose non stavano affatto così e per accorgersene sarebbe bastato leggere i testi (poetici e teorici) dei componenti del Gruppo, almeno di quelli che lo avevano fondato e che erano dei poeti, oltre che dei teorici della “letteratura”. 

Ciò  non è mai avvenuto, almeno non in ambito accademico e, se mi è concesso un breve aneddoto, ancora due anni fa mi sono dovuto impegnare a mandare a una giovane e nota critica e poetessa, che stava per pubblicare un libro sulla poesia italiana contemporanea, i file di Baldus, perché potesse, infine, leggere da sé quello che fu scritto e mutare almeno in parte i luoghi comuni a cui si era sino ad allora affidata.  L’accusa di epigonismo fu brandita con energia e sin da subito da tutti coloro che vedevano nel 93 un pericolo per posizioni di potere ormai acquisite: neo-ermetici, neo-simbolisti, neo-orfici e neo-orfani di un certo montalismo d’accatto, dunque, si impegnarono a definire epigoni autori che di epigonico non avevano proprio nulla. Paradossalmente chi riproponeva forme e ideologie ben collocate nel 900 accusava noi di voler meccanicamente riproporre formule già viste. 

Ma sarebbe ingeneroso accollare solo a costoro, che anzi in qualche caso (penso a Fortini, su L’Asino d’oro, o a Raboni, sul Corriere) produssero critiche ed analisi pregevoli anche se non condivisibili da chi scrive, la colpa di quella che potrebbe essere chiamata la più grande calunnia letteraria di fine secolo. 

A contribuire a questo elefantiaco misreading furono anche una serie di critici letterari e poeti di generazioni più datate, che a quelle riunioni parteciparono attivamente. 

Se alcuni di loro, penso segnatamente a Luperini, Ceserani, Leonetti, Balestrini, Pagliarani, si impegnarono a comprendere sino in fondo e senza infingimenti ciò  che allora dibattevamo e proponevamo, altri — penso a Filippo Bettini e al Collettivo Quaderni di Critica, a Barilli, a Di Marco, per esempio — tentarono ostinatamente di collocare l’esperienza del 93 in un ambito di avanguardia e questo soprattutto per soddisfare griglie gnoseologiche sbagliate e “precotte” che validassero la loro lettura dello sviluppo storico della contemporaneità. 

Questi luoghi comuni — che si trattasse di quello dell’epigonismo, o invece quello di costituire una Terza ondata delle avanguardie — sono stati poi pedissequamente diffusi da infiniti e infinitamente ottusi Dipartimenti universitari di Filologia in tutta Italia. 

La faccenda è poi particolarmente sorprendente per quanto riguarda Baldus: la vita della rivista, negli anni successivi al 93 racconta una storia ben diversa e non a caso della redazione entreranno a far parte autori davvero insospettabili di nostalgie neo-avanguardiste, come Rizzante, Inglese, Renello, Villalta, Forlani, mentre i suoi indici accostano a monografie dedicate a Leonetti e De Campos, altre consacrate a dialettali come Calzavara o a maestri di tutt’altra origine come Zanzotto, oltre allo spazio rilevante riservato a figure come Villa, Di Ruscio o Cacciatore.

La coincidenza di questi due fattori — l’ostilità bugiarda e mai deposta del mainstream neo-lirico ed accademico e l’interessato equivoco generato da alcuni compagni di strada — hanno fatto sì che la nebbia si addensasse fitta su ci  che quell’esperienza era stata davvero. 

Qualche luce più obiettiva si deve al saggio di Adriano Padua sulla ricezione di Baldus che chiude la raccolta completa (anche digitale) della rivista pubblicata da No Reply nel 2006 e al recente volume di Angelo Petrella, anche se quest’ultimo mi pare continui a leggere l’esperienza di Baldus e del Gruppo 93 all’interno di un codice comunque tardo novecentesco, come d’altra parte anche Rizzante, nell’introduzione al citato volume antologico.

Secondo lei ci sono nella contemporaneità poetica elementi riconducibili all’esperienza del Gruppo 93 e quali sono gli autori che sente più vicini a quel percorso e perché?

Tutto ciò  che oggi non è (in qualsiasi misura, piena o dimidiata, convinta o pentita) effusione lirica e soggettiva deve qualcosa al Gruppo 93, anche se magari ne ignora persino l’esistenza, vista la censura che gran parte dell’accademia italiana ci ha riservato. E questo vale anche per una serie di autori che gli furono esterni, ma non estranei, ancora una volta farei i nomi di Frasca, Mesa, Mansueto, a cui aggiungerei gli appena più giovani Lo Russo e Inglese. 

Credo che possano riconoscersi in quel percorso autori oggi anche in polemica tra loro e fenomeni assai differenti: dall’oralità dello spoken word e della spoken music, del Poetry slam, alle esperienze installative e non assertive di “prosa in prosa”, e fino alle esperienze di mixed media poetry, di videopoesia, teatro-poesia e cinema di poesia. 

Tutto questo ha, in qualche misura, maggiore o minore, a che fare con il Gruppo 93 e con la resistenza che i suoi autori hanno svolto a fine secolo. 

Credo che oggi il panorama formale delle esperienze poetiche italiane sia molto più ricco, vario, complesso che alla fine del secolo. E credo che in questo il Gruppo 93, la poesia che ha prodotto, i problemi teorici e formali che ha portato e riportato all’attenzione, abbiano avuto una non secondaria importanza.

Non farò  nomi, ovviamente, perché a nipotino non segua, ancora oggi, bisnipotino. Farei loro un pessimo servizio.

Lello Voce – Poeta