[Si tratta della trascrizione del mio intervento al convegno Risonanze – Poeti per Zanzotto, tenuto all’Università di Siena nel maggio del 2022. Ora è compreso nell’omonimo volume degli Atti (Ed. pensa Multimedia) a cura di Natascia Tonelli e Stefano Dal Bianco)
Prima di tutto grazie a Natascia Tonelli e a Stefano Dal Bianco per questo invito che mi lusinga.
Vorrei dire anch’io, come hanno già fatto altri, che sono arrivato qua con le pantofole e gli abiti da casa, perché mi aspettavo di parlottare in modo informale, ma mi sono reso conto, invece, ascoltando molti degli interventi che si sono succeduti sin qui, che avrei fatto meglio a preparare qualcosa di più strutturato.
Ma ci provo lo stesso.
Iniziamo da Cantilena londinese, perché, se devo spiegare il rapporto che ho avuto con Andrea Zanzotto, forse quello è il punto migliore di partenza.
Quando ieri in treno pensavo al mio rapporto con lui (che è stato un rapporto anche umanamente molto intenso, almeno da parte mia), mi è venuta in mente quella scena del Casanova di Fellini in cui ci sono i due nani e c’è la gigantessa. I due nani erano napoletani, come me, e la gigantessa (Angelina) era veneta, come Andrea. I due nani, a un certo punto, prima che inizi la Cantilena londinese (che con Stefano abbiamo tra l’altro riutilizzato per la nostra versione scenica del Senhal) dicono questa cosa meravigliosa: «Angeli’ canta! Chella canzone do paese tujo, ca me fa venì malincunia do paese mio…»
Ecco, il mio rapporto con Zanzotto è stato questo: il riconoscere, in un uomo così diverso da me, così lontano, qualcosa che erano le mie radici.
Probabilmente, queste radici hanno a che fare col paesaggio.
Io vengo da una città che non esiste: è solo un paesaggio. Napoli è un enorme, infinito, ripetuto paesaggio di sé stessa. E quando Andrea mi spiegava il suo paesaggio, come avrebbe fatto con un alieno che arrivava da un altro pianeta (Napoli è una città e la sua cultura è completamente differente, induce, richiede, impone un modo antropologicamente diverso di vivere il paesaggio), io ho capito che con quell’uomo avevo qualcosa di profondo da condividere.
A partire di là, è iniziata una relazione anche abbastanza singolare, perché io avevo sempre molto timore di chiamare Andrea: era Andrea che chiamava me, per raccontarmi le cose più strane e soprattutto per parlare con me di Folengo.
In quel periodo, per un breve tratto anche con Gian Mario Villalta, io mi interessavo, curavo e dirigevo una rivista che si chiamava “Baldus”, che era una rivista di sperimentazione (ci avevano detto che eravamo di avanguardia, anche se non era vero), e questa cosa aveva molto interessato Zanzotto. Mi ha più volte stimolato ad andare nel Vicentino, a Bassano e io, ovviamente, ho eseguito gli imperativi.
Cosa lo interessasse di preciso in questa Macheronea e come lui avesse poi collegato questo strano fatto che dei poeti così giovani, anche diversi tra di loro, potessero ritrovarsi sotto l’egida di Folengo, in realtà non lo so. So che era diventato un punto fisso del nostro discutere.
Quando io sono arrivato in Veneto, in realtà il Veneto per me poeticamente era rappresentato da due persone: uno ovviamente era Andrea Zanzotto, l’altro era Ernesto Calzavara, che è un altro poeta con cui io ho avuto un rapporto molto profondo. In qualche modo ho anche tentato di metterli, o ri-metterli in relazione. Infatti, nell’ultima parte della vita del “Baldus”, noi curammo una sezione monografica dedicata a Calzavara e un’altra poi, con gravissimi dissidi interni, la dedicammo a Zanzotto (e lì, per qualcuno, era intelligenza col nemico).
Prima mi ha stupito un termine nel bellissimo intervento di Alberto Bertoni: “slogare la lingua”. Quando in quegli anni pensavo a cosa mi interessava in Zanzotto – e in un altro poeta che per me è stato fondamentale, Emilio Villa – beh, era proprio questo: slogavano la lingua. Questo loro slogare la lingua in quel periodo mi interessava moltissimo perché io facevo una buffa operazione poetica, che era quella di lavorare sulle citazioni. Così, come la comune amica Niva Lorenzini ha sempre avuto il sogno di far incontrare Sanguineti e Zanzotto, io, nel mio piccolo, perseguivo il sogno di collegare Villa a Zanzotto. Lo facevo molto più modestamente, da giovane o quasi giovane poeta, andando a prendere i versi di Villa e quelli di Zanzotto e mescolandoli nelle mie stranissime scatole di versi.
E funzionava: era come se si parlassero a distanza.
Chi non avesse nulla di meglio da fare e volesse applicare un po’ di filologia spicciola persino ai miei testi di quel periodo resterebbe stupito da una cosa: che uno dei cosiddetti esponenti della neo-neo- (non so più quanti neo- Barilli ci avesse messo) avanguardia cita sempre Zanzotto.
In un mio libro, che si chiamava I segni i suoni le cose, c’è una poesia che è intitolata Il paesaggio, dietro: il riferimento è evidente.
Io cito autori antichi, cito Fortini (un’altra mia evidente intelligenza col nemico), cito Villa, cito Zanzotto, cito Pagliarani, ma, per esempio, non cito mai Sanguineti.
Ovviamente questa non era una scelta ideologica, o ‘poetica’.
Quando lavori in quel modo, usando gli altri come se fossero dei blocchi di materiale e tu fossi una sorta di architetto romanico che deve cercare di far fruttare quello che c’è, il problema evidentemente non è il giudizio teorico, o filologico, di poetica; il problema è, molto brutalmente, se funziona, o se non funziona.
Zanzotto ha sempre funzionato, come Villa.
Ha sempre funzionato – e torno all’intervento di Bertoni – per la stessa ragione per la quale riusciva a funzionare con tanti pubblici diversi. Funzionava, perché, come Villa, non è mai stato un poeta chiuso e conclusivo. È sempre stato un poeta dialogico, un poeta che chiedeva di parlare agli altri poeti.
Di Zanzotto mi interessava, prima di tutto, la sintassi, questo modo incredibile di ripetere termini o frazioni di termini dando ritmo alla frase: non erano anafore, le ripetizioni di Andrea facevano eco e avevano all’interno un’oralità così forte, così spiccata, che, per alcuni versi, è assolutamente inutile riprodurla.
È esattamente quello che diceva Celan, quando diceva che la poesia è una svolta del respiro.
Ogni volta che lui vuole, il verso si fa ‘svolta’ e si sente la pagina che prende fiato.
Tutto questo era, per me che avevo iniziato a fare poesia non all’interno di una squadra, ma fuori squadra, assolutamente fuori squadra, qualcosa che mi affascinava moltissimo.
Noi – intendo noi di “Baldus” – abbiamo iniziato pubblicando Villa, pubblicando Cacciatore, pubblicando Leonetti, quindi andando a prendere gli autori di cui nessuno parlava. E nelle lunghe chiacchierate con Zanzotto ho avuto la chiara impressione che questo non gli dispiacesse affatto, anche se, in realtà, gli unici due poeti di cui abbiamo discusso insieme approfonditamente sono stati Villa e Calzavara.
Zanzotto, ovviamente, non era uno di cui nessuno parlava, era un poeta celebre già negli anni del “Baldus”, ma manteneva una postura “sghemba”, che mi permetteva di accedere a un modo diverso di immaginare la poesia. E sia nei suoi testi, che nei nostri scambi, era sempre disponibile a dialogare.
Non riuscivo proprio a capire che cosa impedisse a mondi che io vedevo vicini, di parlarsi.
Ovviamente ho provato a discuterne con entrambe le sponde, ma, altrettanto ovviamente, non sono riuscito a raggiungere una soluzione.
Comunque sia, tra noi sin dal 1989, anno del mio arrivo in Veneto, è iniziato un rapporto che poi si è sedimentato attorno a un suo testo che per me è stato – ed è ancora – un testo decisivo, Gli Sguardi i Fatti e Senhal.
È stato letteralmente un colpo di fulmine! Lì dentro c’era tutto quello che io avrei voluto avere come partitura sonora. È l’unico testo altrui che io abbia mai letto sul palco, d’altra parte.
Ma posso spiegarlo meglio arrivando anche io agli aneddoti.
Assieme a Balestrini (in questo sono riuscito!), lo invitammo a “Venezia poesia” per una indimenticabile lettura con Friederike Mayröcker e con quello che io considero il mio maestro, Haroldo de Campos.
Dopo la lettura, Zanzotto si perse. Giriamo e giriamo, giriamo e dopo un po’ di tempo lo ritroviamo in una specie di campiello, seduto su una panchina che continuava a fare lezione di poesia ad almeno 25 giovanotti e giovanotte, che erano usciti dalla sala e lo avevano seguito come se fosse una specie di rockstar. Arrivava davvero a chiunque: si era tirato dietro una pletora di ragazzi più giovani di me e aveva continuato tranquillamente a fare il poeta (cioè il suo lavoro), a spiegare la poesia a questi ragazzi e stava spiegando Senhal…
Ma arriviamo alla mia decisione di interpretare Senhal…
Ricordo che quella volta venne con me a Pieve anche mia moglie.
Hanno parlato del tiramisù, hanno parlato del vino veneto, con me che gioivo di quel menar il can per l’aia prima di arrivare al punto dolente. Poi, nel momento in cui l’argomentare gastronomico ha iniziato a perdere mordente, mi sono inserito nella conversazione anch’io e ho detto: «Io vorrei leggere, insomma… interpretare, Senhal».
Mi ha guardato e mi ha detto: «Senhal?».
Risposi: «Sì, io vorrei proprio leggere Senhal».
«Ma perché? Dove lo devi leggere?».
«Devo leggere nell’Oratorio di Santa Caterina, a Treviso, un testo di un poeta veneto del Novecento e avrei scelto Senhal, se lei (gli ho sempre dato del lei) mi dà la sua approvazione».
E lui disse: «Va bene, leggi Senhal».
Ovviamente, tutto mi sarei aspettato, tranne di vedere quel pomeriggio, nell’oratorio di Santa Caterina, arrivare Andrea Zanzotto in persona, per cui per me il problema, a quel punto, non era più solo leggere Senhal (che è faccenda piuttosto complessa, performativamente parlando), ma addirittura leggere Senhal davanti a Zanzotto.
Il panico – ma l’ho fatto.
Alla fine, terminata questa lettura, tra l’altro con musica, siamo andati verso un bar, e io ho detto: «Professore, le è piaciuto?».
Lui mi ha guardato con aria molto sincera, e mi ha detto: «Bello… ma io non pensavo mica di aver scritto quella roba là!»
Perché c’è un problema: io non sono un attore, sono uno che vorrebbe (magari da grande) fare il poeta, e chissà magari ci riesce.
Voglio dire che l’atteggiamento è differente: quando un poeta recita un altro poeta se lo prende, se lo mangia, come avrebbe detto Oswald de Andrade; è un problema di cannibalismo.
Io mi ero mangiato Zanzotto. E questa cosa doveva averlo colpito molto, lo aveva messo a disagio, probabilmente.
Seconda occasione. Al teatro Dal Monaco di Treviso mi invitano a una rassegna che si chiamava “Finestre del Novecento” e mi dicono che devo leggere una cosa mia e una cosa di un autore del Novecento.
Ho ritelefonato a Zanzotto, pensando che mi avrebbe detto: «Una sì, due e xe massa», come si dice in Veneto.
Invece, nella sua infinita generosità, mi ha detto di nuovo sì e mi ha detto: «Varda che mi vegno n’artra volta».
E poi ci siamo messi a parlare d’altro, credo di qualche faccenda che riguardava le neuro-scienze…
Apro una parentesi: un’altra cosa bellissima di Andrea era la generosità quando parlava. Cioè non ti parlava, ti dava. Ti dava, ti riempiva, era bello, tu ti lasciavi abbracciare, lui ti dava un sacco di cose. Poi tornavi a casa pieno di cose, difficilmente cose poetiche, ma di ogni genere: politiche, antropologiche… Però tornavi ricco. Parentesi chiusa…
Insomma: mi ha detto di nuovo sì.
Stavolta c’era anche una video scenografia dal vivo, di un bravissimo video-artista che si chiamava Giacomo Verde, che aveva deciso di lavorare con delle riviste patinate, di moda, con immagini cioè di lune deteriorate, degradate. Così abbiamo rifatto questa cosa e alla fine gli ho rifatto la domanda.
Questa volta finalmente mi ha detto: «No, l’hai fatto bene stavolta, proprio ben…». Perché avevo capito una serie di cose che mi erano venute in mente quando lui mi aveva detto “Non sapevo di averla scritta io quella roba”.
L’avevo mangiato troppo; mi ero ingozzato di Zanzotto… invece andava gustato in altro modo. Così infine ho trovato la chiave per interpretare Senhal, nell’unico modo che, a mio parere, permettesse quel testo (quel testo, prima dello stesso Zanzotto).
Così è continuato il nostro rapporto fino alla decisione di fare un numero monografico del “Baldus”, che è poi stata l’occasione per conoscere Stefano, e Mario Benedetti e altri.
È stato un numero difficile, perché abbiamo dovuto superare il sospetto di intelligenza col nemico – un nemico che io non vedevo e che continuo a non vedere.
Continuo a immaginare che Zanzotto mi appartenga tanto quanto apparteneva a poeti che scrivono cose molto diverse da me, perché l’ho riconosciuto, perché ho l’illusione di essere stato riconosciuto da lui.
E questo numero di “Baldus” è uscito, anche se è stato l’ultimo.
Dopo Calzavara, dopo Villa e Leonetti, dopo De Campos, con Zanzotto è finito il “Baldus”, ed è bene che sia finita così quella che Rizzante ha chiamato “l’ultima rivista del Novecento”.
Vorrei dire ancora due cose, che riguardano questo aspetto e l’aspetto di Zanzotto politico, che mi è stato molto caro.
Io credo davvero che la porta della Neoavanguardia sia troppo stretta per farci passare tutto quello di incredibilmente grande e importante che è successo in Italia dagli anni ’50 fino a circa gli anni ’85-’86.
Io penso che immaginare la sperimentazione, il rinnovamento, la dinamica che la poesia italiana è riuscita a imprimere a sé stessa in quegli anni, dividendo in gruppi, in squadre, sia sbagliato.
Io credo che oggi rivedere quel momento storico significhi avere il coraggio di dire quello che Calvino scriveva a Zanzotto (e sapeva perfettamente che lui non sarebbe stato d’accordo): “Anche se non vuoi, e lui non vuole, tu e Sanguineti restate fratelli nemici”.
Questa idea dei “fratelli nemici” secondo me è importantissima, perché la poesia non va avanti senza fratelli nemici: i “fratelli amici” fanno assai male alla poesia, fanno famiglia, camarilla.
Noi abbiamo avuto un periodo della nostra storia letteraria che era piena di “fratelli nemici”, che credo dovremmo riconoscere e riportare nel nostro modo di essere e di fare poesia.
Non è un problema di canone, è un problema di dialogo. È un problema di capacità di produzione di senso, di produzione di forme, che in alcuni di questi poeti è stata così intensa da renderli inimitabili.
Un altro poeta assolutamente inimitabile è Emilio Villa: se ci provi, diventi ridicolo. Ma che relazione c’è tra esperienze così differenti, anche geograficamente?
Io direi che, di comune, c’è questo coraggio di prendersi la responsabilità di mettere in discussione la lingua; c’è in comune questa idea che la poesia sia assumersi un rischio nei confronti del linguaggio, come diceva Augusto de Campos. La poesia è rischio.
Se non ti assumi questo rischio, non vai da nessuna parte. La beltà è stata assumersi questo rischio, è stata dire “Adesso ti faccio vedere io…”.
Quella cosa che probabilmente ad autori di altre generazioni come Edoardo Sanguineti (ma parlo anche di altri, di persone a cui sono stato molto vicino, come Balestrini, Giuliani, Pagliarani, in maniera a volte assolutamente viscerale) sembrava un muro, a un giovane come me sembrava invece un ponte, la soluzione di tutti i problemi. E non riuscivo a capire perché quel muro non cadesse, quelle porte non si aprissero.
Non fa niente che non si siano aperte allora, perché in realtà si sono aperte e forse proprio perché non si sono aperte allora.
Alla fine aveva ragione Calvino: loro hanno continuato a parlarsi, e ci hanno dato, ognuno a suo modo, una grande occasione.
Di Sanguineti non parliamo, perché questo non è un convegno dedicato a Sanguineti, ma di Zanzotto sì.
Andrea è stato il protagonista di un rimboschimento – voglio chiamarlo proprio così – del lessico della poesia italiana, con la capacità di passare – per usare dei termini celeberrimi – da livelli pre-grammaticali a post-grammaticali con un equilibrismo e una capacità di fare acrobazie che non ha pari, e che assomiglia, per certi versi, alle operazioni che faceva Emilio Villa: e i due, almeno apparentemente, non hanno avuto rapporti.
Certo, c’è lo ctonio di Villa e c’è il paesaggio, anche quello cancellato, di Zanzotto. Che è altrettanto ctonio, cioè futuro.
Ultima cosa. Io sono stato subito innamorato di Zanzotto-Lucrezio: per me Zanzotto è sempre stato l’alter ego di Lucrezio. “La terra a ciascuno data in uso ed a nessuno in proprietà”.
Chi l’ha detto più di Andrea, chi l’ha detto più volte di Andrea, chi l’ha detto con più forza di Andrea, chi l’ha detto con più intensità di Andrea?
Oggi il “progresso scorsoio”, mentre ci stringe il collo, ci è infine chiaro. E questo non è un problema letterario, è un problema politico, integralmente politico. Perché, come ho detto poco fa, quando si andava da Andrea non si parlava mai di poesia, si parlava di politica, di biologia, di geologia. Mi ha insegnato il nome di almeno duemilacinquecento piante, che io ho subito dimenticato. Si parlava della Lega Nord. Di scuola (io insegnavo come lui). A volte si parlava anche di poesia, ma non era quella la ragione per cui ci incontravamo.
Ieri sera qualcuno ha detto qualcosa a proposito del fatto che poi i poeti tra loro non è che parlino necessariamente di poesia. Conoscere i poeti significa conoscere degli esseri umani con delle vibrazioni, con delle intensità, che sono come delle radio che continuano a trasmettere. E voglio dire una cosa, sullo stupore di Andrea.
Io il suo stupore l’ho sempre letto come lo stupore di un vecchio, nel senso migliore del termine.
Uno dei problemi fondamentali che credo che noi tutti dobbiamo affrontare riguarda proprio il rapporto tra padri e figli, tra anziani e giovani.
Una volta, per ogni generazione di macchine c’erano decine di generazioni umane. Questo comportava una cosa molto pratica: che il padre poteva insegnare al figlio ad andare a cavallo, perché c’era andato ben prima di lui e ne aveva ‘esperienza’. Adesso, per una generazione umana ci sono tante (troppe) generazioni di macchine, e questo ribalta completamente la faccenda: i padri possono insegnare ben poche cose ai figli, anzi per una serie di prassi è ormai il contrario, la digitalizzazione delle società lo impone. I valori, questi benedetti valori, alla cui estinzione tutti gridiamo, possono essere tramandati solo grazie all’autorevolezza di chi li conserva ed è assai poco autorevole colui che, invece di insegnare, oramai impara (ed a volte impara assai male – e questo me l’ha insegnato Sanguineti).
Forse per questo mi è sempre sembrato vecchio, Andrea, e l’ho sempre cercato proprio perché era vecchio. Perché raccontava di un mondo nel quale il rapporto tra le generazioni era ancora un rapporto comprensibile, che faceva ominazione.
Io quella cosa non ce l’avevo più. Sono nato nel ’57, quando c’era già la tv. Così, tutte le volte che l’ho incontrato mi sembrava di ascoltare una trasmissione radio che arrivava dall’infinito, infinitamente lontana, infinitamente vicina. E non ho mai compreso così bene cosa significasse il fatto che la vecchiaia è un privilegio come quando ho incontrato lui.
Lo stupore, lo stupore vero, è quello dell’anziano.
Ricordo un’intervista televisiva che gli fu fatta pochissimo tempo prima che morisse, dopo la quale lui mi telefonò per dirmi: “Ma hai visto cosa mi hanno chiesto?”.
Gli avevano chiesto se alla fine della sua vita avesse infine capito qualcosa del mondo. Era molto arrabbiato per questo e mi disse: “Ma ti rendi conto? Come se la vecchiaia fosse l’epoca della saggezza!”.
Aveva ragione, la vecchiaia non è l’epoca della saggezza: la vecchiaia è l’epoca in cui finalmente possiamo diventare completamente matti, e trasmettere, trasmettere continuamente, saturando di onde radio l’universo del linguaggio e del pensiero. Perché io credo che questo siano le voci dei poeti: queste trasmissioni radiofoniche che vengono dal tempo, anzi dal luogo preciso in cui tempo e spazio, per un istante, si fondono e si confondono.
Leggo ora da Conglomerati, che è l’altro ‘mio’ libro:
Denti di squali e segnali fatali.
Zampe dovunque guantate
perché sopravvivano, agli animali.
Animarsi, animarsi nello scricchiolio del pack
del casalingo bussare del pack che s’infrange alle porte.
Non è più questione di vita né di morte
ma di ladri che fin l’ultimo centesimino
aspirano a far da bottoncino bottino
alla propria cravatta a farfalla,
strangolino
che ti farà esplodere naso e occhi
come dentro il più ripetitivo
telehorror per gli utenti più sciocchi:
ma assorditi dagli urti dei sottozeri notturni
dell’infido del lago impietrato
assiderato sbattere di denti e portenti
e di farfalle vampiriche
e polveri piriche di ghiaccio e sul confine
la non remissione senza fine, scritta con perline
e conterie provenienti in modo e momento perso
dai forzieri della MAGRA LADY
che secondo Goffredo regge l’universo
(stridori, squittii di tane di ladri
e di padri di ladri)
Mentre tanfo e grandine e cumuli di guerra
Mentre tutto trema nel delirio del clima
e la brama di uccidere maligna inventa inventa
Rari sono i luoghi in cui resistere,
luoghi dove Muse si danno convegno
per mantenere l’eco di un’armonia
per ricordarci ancora che esiste il sublime
per riesaltare gli antichi splendori ed accogliere nuove vie di Beltà
Raro pur sempre e sepolto nelle selve d’ombra di armi totali
un Luogo: e ora rinasce e tenta difenderci dall’ira del cosmo.
(Questa ci stava proprio bene con l’aria che tira, no?).
Finisco con quest’altra, perché prima di venire ho rivisto un video che vi consiglio assolutamente e che è un omaggio di un’amica comune, Margot Galante Garrone, ad Andrea.
Questa poesia la legge lui e Margot gli ha messo sotto Oblivion di Piazzolla (provate a immaginare Oblivion).
Al secondo verso c’è il sintagma spine-spume, che è un’altra delle cose incredibili che Andrea realizzava con il linguaggio: Zanzotto riesce a far fare ai nomi il lavoro degli aggettivi.
Tu leggi e capisci chiaramente che sono due sostantivi, ma uno sta facendo lo sporco, maledetto lavoro, quello che è il più sporco di tutti: il lavoro degli aggettivi.
Naturalmente, alla lettura successiva, le parti si invertiranno, perché il testo di Zanzotto è vivo, non smette mai di cambiare: con buona pace della filologia.
Quanto mistero di luce è uscito in lanugini
e tenuissime spine-spume da voi occhi
quanto avete dato al mondo oggi, occhi
d’insetti, di animaletti, e
– di inusitati esseri – umani
Quanto è uscito per il mondo, a formarlo, a
irrorarlo di luci lanugini sotto il sole
da tutti gli occhi, dai miei
da tutti noi insetti ebbri e dolci! E maligni
E poi e poi, cadere, non risorgere, ipervedere
argutamente. Sento che troppo
ambiguo e necessario e profondo
è il fatto che mi pattuisce coi colori del mondo
E perché “di questo”
e non di un altro mondo