Che la profezia di Fukuyama fosse errata e che la dinamica storica non fosse affatto terminata è ormai noto a tutti, come l’evidenza che, in realtà, aveva ragione il Foscolo nella sua celeberrima Lettera da Ventimiglia e che – oggi come ieri – “l’universo si controbilancia” e ogni volta che la Storia si rimette in marcia scorre il sangue e le nazioni ricominciano a “cibarsi l’una delle altre”.
Insomma – come ha più volte sottolineato Gilda Policastro, nei suoi saggi, ma anche nei suoi versi e nelle sue prose – dopo anni di apparente e soffusa beanza (almeno presupposta) le nuove generazioni poetiche dovranno fare di nuovo i conti col trauma e con i suoi segni, i suoi simboli, le sue cicatrici.
I due libri di cui vi parlo oggi proprio con il trauma hanno a che fare, proprio con il trauma dialogano, sia pure da punti di vista diametralmente differenti: intimo, privato, a volte sommesso, quello esperito da Elena Mearini nel suo A molti giorni da ieri (Marco Saya ed.); più ‘civile’, politico, risentito – ma non per questo meno ‘interiore’ – quello di Francesco Brancati ne L’assedio della gioia (Le Lettere ed.).
A molti giorni da ieri è un raffinatissimo diario del ‘tempo perduto’ che si basa sull’assunto – tutto proustiano – che solo nella memoria sia possibile scovare qualche verità sulle nostre esperienze di vita. Occorrono, cioè, davvero molti giorni a separarci da ciò che pure ci appare appena ‘ieri’ per comprendere il reale e comprenderci in esso: «Lo senti il tempo / non smette i suoi graffi / sulla superficie / delle cose dei giorni / ripete / il punto che punge».
Questo “punto che punge” è poi il nucleo di dolore attorno al quale, magneticamente, si riuniscono tutti gli istanti vissuti, in una gerarchia in cui infine passato e presente si mescolano indissolubilmente.
Ciò che interessa l’autrice, e lo dichiara sin dall’incipit «è il verso ferito delle cose / che perdono / poesia dal taglio», dove quel “verso” va inteso in tutte le sue accezioni, non solo in quella poetica: il verso come voce, il verso come lato, il verso come ‘destinazione’.
Il diario intimo di Mearini sembra disporsi in pagina, scegliere le sue parole, i suoi ritmi, le sue sintassi a partire da un’esplicita dichiarazione di poetica, nascosta tra i versi di una lirica apparentemente tutt’altro che metapoetica: «metti a memoria la nota minore / ripetila quando la voce muore».
Questa ricerca della ‘nota minore’ non le impedisce, però, di raggiungere momenti di rilevante intensità, tanto intima («cos’altro si consumerà / oltre a questa notte / quale cane ancora / scambierà la tua ombra / per il suo padrone») quanto più ampiamente sociale, condivisa, quasi, per una volta almeno, politica: «noi dobbiamo / torcere la linea / sfinire il margine / impegnarci a morire / nella complicanza delle rovine».
La scelta formale è quella di un equilibrio, spesso acrobatico, ma sempre cosciente, tra simbolo e allegoria, che dona alle parole una loro particolare forza evocativa: «un nome di pozza / dove la bocca cade / quando l’acqua muore».
E così se da una parte l’esercizio poetico deve confrontarsi con un dire che «appare tutto / una rivalsa del silenzio», dall’altra la scommessa ardita e vinta è quella di una poesia che «sbraccia il suo senso / al largo del mondo», che dichiara il suo trauma, che su di esso costruisce la sua lingua.
L’assedio della gioia di Brancati percorre invece territori diametralmente diversi, fa appello ad aspetti della scrittura e a forme e a poetiche differenti.
Come sottolinea Massimo Gezzi nell’Introduzione, si tratta di un testo complesso e fortemente strutturato, direi quasi architettato. Fin dal titolo, che si porta dietro un’ambiguità tutta sveviana: è la gioia che assedia, o invece è essa stessa ad esserlo? E poi di che gioia stiamo discutendo, di una gioia del corpo, o dell’anima, si parla qui del desiderio, o invece del sogno?
Domande che ovviamente non hanno, né necessitano risposta.
La struttura di quest’assedio è ordita su sezioni argutamente bilanciate, in cui ai versi si alternano delle prose metriche di singolare forza, esplicitando l’idea di una poesia che è, innanzi tutto, un progetto di senso che Brancati persegue con una lingua ricchissima, che non teme gli scarti di registro, che è così ricca proprio perché si vuole ‘civile’, disposta cioè al confronto con il reale, con il mondo e il suo divenire.
Autore coltissimo (Brancati è anche un giovane studioso di letteratura e prima o poi si dovrà riflettere su questa singolare circostanza che vede oggi moltissimi giovani autori nel medesimo doppio ruolo di Brancati: cosa e come è e può essere una ‘poesia dei giovani accademici’ ?) le sue eredità stilistiche sono molteplici da Rosselli a Fortini, a Mazzoni, che è maestro non solo di scrittura, ma anche di ricerca.
Se è evidente da una parte la scelta di scovare, con Rosselli, «la parola che esprima gli altri», per altro verso al centro del testo sta comunque un io a cui è però proibito ogni abbandono lirico, un io secco, prosciugato fino all’essenziale, che a volte si frantuma e si fa ‘noi’, altre invece si riconosce disperso, quasi arreso all’assedio del caos (o della gioia, che in fondo è la medesima cosa), un io deluso che sa riconoscersi infine solo in quanto corpo: «Ciò che pensavo infine arrivasse / e mai è arrivato / è il movimento unito del respiro, / precipitato con la luce che irradia /… / sembra essere quanto più manca».
Nella complessità di questo caos in cui l’io che scrive viene centrifugato e a volte fatto a brani, nasce la paradossale certezza che ci suggerisce come l’assedio sia, in fondo «una forma individuale / di conforto» una «piccola paura» che forse ci salva da quella che, quasi pascolianamente, è infine la «nebulosa di terrore del mondo».
E così, se da una parte qui non c’è spazio alcuno per la memoria («I ricordi oppure le strade non conservano / niente, non servono / a nulla»), dall’altra la posta in gioco è la medesima di Mearini: il ritorno del trauma ci impone di decidere: «di chi è il libro / di chi sono le parole».
Come avrebbe detto Humpty Dumpty…
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