L'esercizio della lingua Poesie 1991-2008

L’esercizio della lingua ovvero le forme plurime del fare arte – di Ade Zeno e Gilda Policastro

L’esercizio della lingua, ovvero le forme plurime del fare arte
di Ade Zeno

Esce in questi giorni, grazie all’infaticabile, appassionato e assai
prolifico lavoro editoriale della collana Fuoriformato della casa
editrice Le Lettere, un volume ricco
e prezioso che raccoglie l’ideale
(auto)antologia di Lello Voce, un
poeta maiuscolo che in un quasi
ventennio di attività ha saputo
trasformare la propria voce – nomen
omen, come sottolinea Andrea
Cortellessa nel risvolto del volume
– in essenza materica, corporea,
irrimediabilmente concreta. Voce
che si commuta in verso (e
viceversa) in un continuo
inesauribile scambio, la parola
scritta che prende vita e oltrepassa
la pagina per espandersi altrove in
cerca di contatto, di condivisione
collettiva, al costo di spingersi fino
alle zone del conflitto, della
denuncia disturbante che vuole (e
può) mettere sul piatto la
scommessa di rivoluzionare il
mondo grazie alla potenza del
versificare. Stando di lato, in
disparte, a perdifiato, tanto per
citare gli emblematici versi che
aprono la prima sezione della
raccolta, il respiro del poeta che
indignandosi grida è una forza
invisibile ma non astratta, solo
apparentemente effimera, di certo
non innocua: scalcia, fa a pugni
con le circostanze, se calibrato e
consapevole ha la facoltà di
appiccicarsi alle orecchie di chi lo
ascolta, graffia, pulsa, ferisce i
timpani e la gola. Lello Voce,
insomma, non ha niente a che
spartire con un’idea di poetare
imprigionato tra le mura di stanze
chiuse, i territori in cui si muove
sono aperti, spalancati, il desiderio
(civile, militante) di abolire gabbie e
confini è quasi un dictat, una
condizione necessaria da cui vale la
pena non discostarsi mai; ed ecco
allora il salto dalla pagina, il testo
che si allea con la musica, con il
video, con la performance live, e
insieme a loro cresce, si evolve,
aumenta di peso, sfonda di
prepotenza lo spazio. Primo in
Italia a importare l’ormai
felicemente diffusissima arte dello
Slam Poetry, instancabile animatore
di accesi dibattiti, inventore di un
importante festival come i Cantieri
Internazionali di Poesia Absolute
Poetry
di Monfalcone, tra i
fondatori del Gruppo ’93 e della
rivista Baldus, Voce non ha mai
smesso di interrogarsi sugli obiettivi
e sulle forme del fare poetico, in un
convinto e continuo confronto con
le “linee laterali” della letteratura
passata e presente (Cacciatore,
Villa, Folengo, Michelangelo,
Jahier, de Campos), elementi che
trovano nella contaminazione un
principio fondamentale di ricerca
pur senza dimenticare la volontà di
seppellire una volta per tutte
l’usurata e sterile contrapposizione
Tradizione versus Avanguardia. A
esaminare accuratamente la nitida
complessità di questo percorso ci
pensa Marianna Marrucci, autrice
del saggio “Per una nostalgia del
futuro” riportato a fine volume, in
cui visita in chiave critica il corpus
vociano, e seguito da un altro
ammirevole intervento, questa
volta a firma del musicologo
Stefano La Via, che, da sempre
incuriosito dai rapporti fra poesia e
musica, si cimenta ora in una
minuziosa analisi
“razionalemotiva” del
fastbloodiano “Lai del ragionare
lento”. Impostato su una geografia a
ritroso (prima i componimenti più
recenti di Piccola cucina cannibale,
poi il Fast Blood del 2002, le Farfalle
da combattimento
del 1999, e infine
le due raccolte più lontane nel
tempo, I segni i suoni le cose, 1995, e
(Musa!), 1991, L’esercizio della lingua
è molto più di una collazione
testuale: perfettamente in linea con
la natura strabordante del suo
autore (e della collana in cui viene
pubblicato, nota per aver fatto della
multimedialità un aspetto
essenziale) è un documento
prismatico, multiprospettico, in
grado di restituirci un quadro
completo delle forme plurime in
cui Voce ha condotto e affinato la
propria arte. Quadro che si allarga
nel supporto digitale allegato – un
pionieristico DADV bicefalo – che
riporta sul lato A otto tracce audio
registrate insieme a musicisti
d’eccezione come Paolo Fresu,
Antonello Salis e Frank Nemola, e
sul lato B varie sezioni video tra cui
i poetry clip di Giacomo Verde e
alcune performance live del poeta.
Duplice faccia della stessa medaglia,
dunque, anzi triplice, quadrupla, o
più indefinibilmente ennesima.
Una medaglia senza sfaccettature
nascoste che va guardata e ascoltata
nella sua interezza, lato con lato,
voce con Voce.

Gilda Policastro intervista Lello Voce

Dire nomen omen non fu mai così calzante:
sono ormai vent’anni che fa
sentire la sua Voce, Lello. Ed esce ora
un’antologia, L’esercizio della lingua
(Le Lettere, pp. 156, euro 28, con il
DADV Piccola cucina cannibale), che
di quest’attività ripercorre le tappe
fondamentali, dando conto della
complessità di un’esperienza che si è
arricchita sempre più, oltre alle parole,
di musica, immagini, corpo vivo:
il libro come insieme di pagine è per
questo autore un oggetto quanto
mai desueto.
L’antologia appena uscita ripercorre
la sua attività da “Musa!” del ’91 a
“Piccola cucina cannibale” del
2006-2008, e però seguendo l’ordine
cronologico
inverso. Ma come si
è svolto “l’esercizio
della lingua”, di
quali influenze,
suggestioni,
collaborazioni si è
nutrito?

Convinto come sono
che il passato stia davanti
a noi, e il futuro
invece ci corra incontro
alle spalle non potevo
che proporre un cammino “archeologico”
per quest’antologia delle mie
cose. A voler ripristinare l’ordine
“normale” degli eventi direi che tutto
parte sotto un’evidente egida poundiana,
condita da un amour fou per
Artaud, Brecht, Jahier. Poi è arrivato
il dialogo con l’opera di alcune grandi
personalità italiane, tra loro difficilmente
conciliabili, mi rendo conto,
come Balestrini, Pagliarani, Fortini,
Zanzotto, Costa, Vicinelli. Ma se dovessi
davvero cercar paternità emigrerei
nel Brasile di Haroldo De Campos,
dove incontrerei Emilio Villa.
Nel corso di questo cammino le tappe
più importanti sono state certamente
l’esperienza di Baldus e del
Gruppo 93, e poi la scoperta della Rete,
la collaborazione con artisti come
Paolo Fresu, Frank Nemola, Michael
Gross, Luigi Cinque, Giacomo Verde,
Silvio Merlino. Con loro compongo
le mie poesie, o meglio le poesie di
cui scrivo il testo e che eseguiamo insieme
sul palco: loro non mi “accompagnano”,
piuttosto è la mia voce, in
contrappunto con i loro suoni e le loro
immagini, ad essere il vero “corpo”
di quella poesia.
Tra le sue varie attività c’è la
direzione di “Absolute poetry”,
cantieri permanenti di poesia che
culminano nel Festival
internazionale di
Monfalcone. Cos’è
cambiato rispetto ai
primi anni in cui
proponeva gli “slampoetry”?

C’è ancora
resistenza rispetto
alle esperienze
poetiche legate
all’oralità?

Il primo “evento”
di poesia a cui ho
assistito nel ’77 era Castelporziano,
poi nel 1989 partecipai al mio
primo festival internazionale, Milano
Poesia. Da allora ho avuto la fortuna
di prendere parte, di dirigere e
organizzare molti festival e in tutti
questi casi le platee erano disponibilissime,
nessuna traccia di resistenza.
Anche la critica è ormai certamente
attenta, sebbene non teoricamente
adeguata, alla poesia ad alta voce. In
realtà le uniche resistenze sono quelle
che vengono da una certa lobby
trasversale di “feudatari” del verso (e
dai loro giovani servi sciocchi), negli
ultimi tempi anche con spiccate tendenze
confessionali, che occupa i
posti di potere dell’editoria italiana
di poesia. Il paradosso è poi che la
maggior parte di questi onesti letterati
te li ritrovi sul palco dei festival
di poesia in tutta Italia, che balbettano
i loro versi muti. In realtà ciò che
fanno è solo sfogare il narcisismo dei
loro corpi esposti al voyeurismo del
pubblico. Una cosa a cui non riescono
proprio a rinunciare, e che con la
poesia “performata” non c’entra nulla.
Ecco un’ottima ragione per tacciare
di spettacolarità chi sa fare ciò
che loro non sanno fare. Come direbbe
il grande Leonetti: in Italia
«c’è un ammasso di vecchiaia che fa
un ingorgo immobile»!
In un’intervista del 2004, riportata
nel dvd accluso al libro, mette in
relazione il poeta e la comunità:
senza questa relazione, lei dice,
«muore il poeta e muore la
comunità». Ma qual è la comunità di
riferimento, oggi, per la poesia?

Potrei rispondere la “moltitudine”,
ma suonerebbe retorico. Diciamo più
semplicemente quel pubblico, a volte
minimo altre assai meno flebile,
che segue le performance di poesia:
pubblico non è una brutta parola, è
una parola bellissima, è il contrario di
privato. Poi, per dirla con Deleuze: si
scrive sempre per un popolo che ancora
non c’è, come Dante nel Convivio,
si parva licet…
La semplicità è il comunismo, è il
titolo di una delle poesie
dell’antologia. Sottotitolo “che è
difficile a farsi”…

Il verso è un ribaltamento del celeberrimo
brechtiano. La poesia da cui è
tratto è nata per l’appunto in occasione
dell’anniversario brechtiano, per la
Brecht Fest presso il Berliner Ensamble.
E’ certo che oggi la parola comunismo
sia svuotata, che dunque esso
sia “difficile” a farsi. Difficile ridargli
un senso, difficile pronunciarne il nome,
definirne i contorni, ma altrettanto
certo è che è necessario ridare un
nome a quel sogno che esiste da sempre
e che il Novecento, appena definitivamente
trascorso, ha scelto di
chiamare comunismo. E i nomi, le
parole, si sa, sono di competenza dei
poeti, che stanno lì apposta per “tenere
in esercizio la lingua”.

Lello Voce – Poeta