Patrizia Vicinelli io non l’ho mai conosciuta di persona. Avevo assistito a un paio di sue performance e ne ero rimasto folgorato, ma non avevo mai trovato il coraggio di avvicinarmi e presentarmi. In quella mattina dell’ormai lontano 89, davanti ai capannoni dell’ex Ansaldo a Milano ero emozionantissimo. Era stato invitato a MilanoPoesia e in cartellone c’era anche lei, con Paolo Fresu: avrei dunque potuto conoscerla, parlarle e mi aggiravo davanti all’entrata ripetendo a memoria certi suoi versi, che a me sembravano un manifesto su quanto la poesia avrebbe dovuto fare per sfuggire alle paludi di vieto sentimentalismo libresco e neoromantico in cui era precipitata in quegli anni: « Disse che anche la poesia andava detta / in un altro modo, perché servisse ad altre schiere, / e perché diventasse movimento attivo / senza ritorno, ogni volta che il desiderio / avesse preso una forma». Ma Patrizia non arrivò mai. Ricordo la commozione che faceva tremare la barba da Mangiafuoco di Gianni Sassi che ce lo sussurrava, mescolando rabbia e dolore. Patrizia sta male, molto male. Verrà l’anno prossimo. E mentre lo diceva si capiva che a quello straccio di speranza futura non era capace di credere nemmeno lui.
Da allora, quest’incontro mancato è la forza di una fedeltà a Patrizia e al suo modo di fare poesia, meglio, di vivere la poesia, che non mi ha più abbandonato. Un modo d’intenderla come parte del corpo, come vivo respiro che dice e si dice, ma anche come esercizio di un pensiero profondo e dissidente che si infila negli interstizi della realtà e che smaschera ogni ovvietà della percezione. Una poesia fatta di rischi e di estrema raffinatezza formale. Una poesia fatta con gli altri, dialogando sul palco con la musica, fatta di comunità e per la comunità, anche se certo Patrizia non fu un’autrice ‘politica’.
Ma non vorrei che, da quanto sin qui detto, voi pensaste che Patrizia è morta. Niente di più falso. Sta benissimo e vive vite sempre nuove nel lavoro di molti di quei giovani poeti da palco e da suono di cui vi ho già parlato e anche in alcuni di noi, ormai alla boa della mezza età. Anche se magari qualcuno di loro nemmeno la conosce, anche se a noi poi capita di balbettare ciò che lei cantava a piena voce. Perché Patrizia vedeva lontano e che sarebbe andata a finire così, lo sapeva benissimo. E lo aveva anche scritto: « Non c’è stendardo che possa / realmente fermarmi, né chiusura di spazio, / né circolo di tempo: la mia vita e la mia / morte sono la stessa avventura».
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