0 – Qualche necessaria premessa.
Il rapporto tra poesia e musica è talmente antico, ricco di sviluppi, tradizioni, sperimentazioni, tanto fondamentale nello sviluppo di entrambe le arti, che trattarne adeguatamente, sia a livello storico che teorico, mi sarebbe naturalmente impossibile, sia per la limitatezza degli intenti di un breve scritto, che per le mie specifiche competenze.
Mi limiterò pertanto ad una serie di rapsodiche osservazioni, in qualche modo anche teoriche e storiche, che si proporranno soltanto di dare un’idea generale dei principi di poetica e delle intenzioni relative alle mie prassi poetiche, al mio modo di fare ‘poesia con musica’.
Vorrei anche precisare che ciò di cui tratterò qui non è il mettere in musica, su musica, con musica testi poetici nati per essere soltanto dei testi, né quelli che vengono definiti ‘libretti’, cioè quei testi che nascono per avere una funzione sostanzialmente ancillare nei confronti della musica, come nell’opera lirica e neanche qualche forma di ‘melologo’ del tipo della splendida Sprachmelodieinserita da Schönberg nel suo Pierrot lunaire, o i recitativi presenti nell’Histoire du Soldat di Stravinskji, ma proprio la produzione di testi poetici che prevedano in partenza il dialogo delle parole con la musica, la composizione di questa musica originale e l’esecuzione di quest’insiemesonoro/testuale sul palco, o su qualsiasi supporto di registrazione, da parte del poeta stesso.
Questo escluderà una serie di autori, opere e testi di altissimo livello, come, per fare un solo esempio, la lunghissima collaborazione di Edoardo Sanguineti con Luciano Berio, prima, e con Andrea Liberovici, dopo, pur trattandosi di opere di altissima qualità formale, sia poetica che musicale, e di grande interesse storico-critico.
Va detto, inoltre, che parlare di poesia con musica significa discutere soltanto di una parte di un territorio ben più ampio, che è quello che riguarda il rapporto tra oralità e scrittura, tra voce (suono) e parola (segno) in poesia e, quindi, quello dell’esecuzione dei testi poetici: un campo molto vasto, che va oggi sotto il nome di spoken word, o poesia performativa, e che coinvolge, inoltre, sin dagli albori dello scorso secolo, una vera e propria ‘tradizione del Moderno’, con una sua storia ricca di splendide realizzazioni e intriganti teorie, quale è quella della poesia sonora e concreta di cui qui, però, non mi interesserò.
Su questi e molti altri aspetti della questione, comunque, ho avuto modo di intervenire piuttosto spesso e con una certa costanza negli anni passati e mi permetto di rimandare perciò alcuni degli scritti che riuniscono le osservazioni che io ritengo più importanti al riguardo: ad alcuni di essi farò riferimento anche nel corso di questo breve intervento.
Si tratta di A mio modesto avviso – (Appunti di poetica ragionevolmente sentimentali), uscito su “Il Verri”, n° 39, 2009); di Per una poesia ben temperata, pubblicato su “Inpensiero”, n° 6, 2012 e, a quattro mani con Gabriele Frasca, di Avviso ai naviganti, (“Alfabeta2”, 2018).
Sono tutti ora reperibili online, ai link integrati nei titoli.
1 – Il nodo storico
Nonostante le vicende storiche delle due arti siano strettamente intrecciate, sin dall’antichità, e nonostante la gran parte della tradizione europea delle Origini sia rappresentata proprio da poesia con musica (dai Trovatori e dalle Trobaritz, ai Minnesänger, ai Trovieri e fino a Dante e alla sua collaborazione con Casella) il loro rapporto, perlomeno nella Modernità, è fatto più di distinzioni che di identità.
Di questo ebbe a lamentarsi già Leopardi in un passo del suo Zibaldone, quando, nel corso di una critica serrata alle composizioni musicali romantiche a lui contemporanee, annotò a proposito: «della funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e indivisibili» (Zibaldone, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, pg. 3229).
Nel caso italiano il silenziatore posto da Gianfranco Contini, e poi da Aurelio Roncaglia, allecaratteristiche ancora pienamente sonore e ‘musicali’ della poesia delle Origini ha fatto sì che,nonostante obiettivi ed evidenti elementi storici dicessero il contrario, da noi la poesia sia stata considerata un’arte da sempre ‘muta’ e integralmente ‘letteraria’.
La ben nota polemica tra Contini e Nino Pirrotta a proposito del supposto “divorzio” tra poesia e musica che sarebbe avvenuto a partire dai Siciliani è solo la punta di un iceberg fatto di sorda ostilità filologica a tutto ciò che in poesia rimanda alle sue caratteristiche radicalmente orali e ai rapporti strettissimi che essa ha da sempre con la musica.
Ciò ha comportato, e ancora comporta, un atteggiamento preconcetto nei confronti di qualsiasi poesia stabilisca una relazione con la musica, che Pirrotta fa risalire sino all’Arcadia: « L’opinione dei filologi è dominata invece da una diversa prospettiva storica, dalla considerazione del successivo corso della poesia italiana che avrebbe portato nel giro di pochi decenni alla poesia di Dante e di Petrarca, e da un filologico impulso a distinguere e separare tale poesia da ogni intrusione di valori che non siano quelli poetici. Dall’Arcadia in poi grava sulla letteratura italiana l’ombra di un persistente pregiudizio che, facendo aurea eccezione per la poesia cantata di tipo trovadorico, tende a considerare come inferiore ogni poesia destinata ad associarsi alla musica.
Non si offendano i miei colleghi filologi se io penso che anch’essi sono inconsciamente influenzati da tale pregiudizio, anche se nel caso dei ‘siciliani’ e dei loro ancor più illustri successori non si dovrebbe tanto parlare di ‘poesia per musica’ quanto piuttosto di ‘musica per poesia’» (N. Pirrotta, I poeti della Scuola siciliana e la musica, “Yearbook of Italian Studies”, 4, (1980), pg.6)
Naturalmente non ho qui il tempo di ricostruire il ben più che decennale dibattito al proposito, mi limiterò dunque a rimandare a quanto raccolto e discusso in un ottimo intervento di Agostino Ziino (Il “divorzio” dopo Roncaglia, in “Atti dei Convegni Lincei, 273 – Aurelio Roncaglia e la filologia romanza”, Scienza e lettere, 2013, pp.85 – 122), da cui si attingerà anche più avanti, dal quale peraltro si evince con chiarezza sia la fondatezza delle tesi di Pirrotta, quanto un certo interessato misreading in senso ‘ideologico’ delle osservazioni di Roncaglia.
Come ho già avuto modo di notare, nel dantesco De Vulgari Eloquentia, l’esecuzione di poesia ‘soni modulatione’, cioè insieme con la musica, è esplicitamente inserita, insieme all’esecuzione ad alta voce e alla lettura silenziosa, come uno dei possibili modi di fruizione e trasmissione dei versi.
Nota al proposito Paul Zumthor, affidandosi anche all’autorevolezza di studiosi del ritmo come Henri Meschonnic, che «l’idea di poesia esposta nel Convivio e nel De vulgari eloquentia si fonda sul ricordo di uno spazio vuoto in cui è sorta, il primo giorno, la sonorità pura di un dire, anteriore all’articolazione, materializzandosi poi, in una frase immaginaria, sotto la forma del concerto vocalico a-e-i-o-u… che in latino assomiglia alla prima persona di un verbo». (P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, 1984, p. 200)
È evidente, dunque, quanto ancora per Dante il concetto di poesia fosse legato alla concretezza della voce e aperto all’interazione con la musica.
Il fatto che non ci siano rimasti che sparuti esempi scritti di quella musica, e di altra che probabilmente scritta non fu mai, non significa che essa non ci fosse, piuttosto ne fa quella che Pirrotta definì la ‘Musa assente’.
D’altra parte, lo sviluppo storico delle forme miste, dal madrigale al melodramma, all’opera lirica e sino alla contemporanea ‘canzone d’autore’, ha fatto sì che esse assumessero caratteristiche spiccatamente musicali, relegando in secondo piano gli aspetti poetici e ‘letterari’, che pure avevano ed hanno, la cui qualità è andata man mano scemando in uno con una funzione sempre più ancillare nei confronti della musica, diventando, dunque, di pertinenza quasi completamente musicologica.
A voler qui accennare a qualche altra breve notazione storiografica (del tutto incompleta e certamente lacunosa) si potrebbe affermare che la situazione in Italia è rimasta tale a lungo, fino a che a rimescolare le carte, almeno a livello della discussione ‘giornalistica’, non sono giunte, diciamo dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, le esperienze dei cosiddetti ‘cantautori’, nelle cui composizioni l’aspetto letterario – e quindi le forme, il significato e il senso delle parole cantate – ha ripreso forza, importanza e centralità e l’arrivo, qualche anno dopo, in ambito internazionale, del rap (le prime performance dei Last Poets, unanimemente considerati i fondatori del genere, sono del 1968) ha dato un impulso decisivo a un rilevante cambiamento nel rapporto tra parola e musica nei generi musicali stessi.
Ciò ha peraltro comportato – e in buona misura comporta ancora oggi – non soltanto feconde interazioni tra le due arti, ma anche una serie di pericolose confusioni a causa delle quali autori ed artisti di indubbio valore, ma che certamente non erano poeti e non intendevano comporre poesia, siano passati e passino, nell’opinione di molti, sin di molte antologie scolastiche (!), come tali.
Nel frattempo, a livello internazionale, e per strade sostanzialmente separate, alcuni poeti avevano iniziato a sperimentare un nuovo dialogo tra versi e musica, penso, per citare solo i maggiori e più conosciuti, a John Giorno e ai suoi rapporti con la scena rock americana e più in generale anglofona, ai due Noigandres, Haroldo ed Augusto De Campos, e alle loro collaborazioni con maestri della Nuova Musica Popolare brasiliana, come Caetano Veloso, e all’originalissimo percorso dell’uruguagio Horacio Ferrer e alla sua lunghissima collaborazione con Astor Piazzolla che lascerà un segno indelebilmente poetico nella storia del Tango.
A partire dagli anni Settanta e Ottanta sono poi emerse una serie di figure – a livello internazionale citerei come esempi Gil Scott Heron e Linton Kwesi Johnson, strettamente legati alla scena hip-hop, rap e dub – che hanno iniziato a muoversi sui confini, producendo opere multiverse che, pur avendo un evidente consistenza musicale, facevano delle qualità letterarie dei testi un aspetto formalmente fondante del loro sviluppo.
Il riprendere forza, a livello internazionale, dello spoken word e il diffondersi in Italia del fenomeno dei festival di poesia, da Castelporziano a MilanoPoesia, a romapoesia e Absolute Poetry, ha dato successivamente una sponda sicura a quegli autori che già sperimentavano la sonorità del linguaggio poetico per poter sviluppare forme nuove e tentare l’utilizzo di codici e media diversi.
L’affermarsi anche in Italia, dal 2001, del Poetry slam ha infine chiuso il cerchio, permettendo un consolidamento della ‘scena’ performativa italiana, all’interno della quale, lentamente, ma costantemente, è nata una serie di sperimentazioni anche ‘musicali’.
D’altra parte, già prima anche in Italia è possibile ritrovare tracce chiare dell’inizio di nuove ricerche artistiche in cui la poesia incontra la musica.
Pur lasciando da parte l’opera, così singolare e radicale, di Demetrio Stratos, che è probabilmente più vicina alle strade della ‘poesia sonora’ che a quelle della poesia con musica, (e lo stesso discorso vale anche per Giovanni Fontana, che può vantare collaborazioni musicali persino con Ennio Morricone), già da metà degli anni 80 il compositore, musicista e poeta Luigi Cinque partecipava a svariati festival, in Europa e in America latina, eseguendovi suoi testi poetici con musica.
Più o meno in quegli stessi anni nasce, grazie a Daniela Rossi, una delle organizzatrici di poesia più lungimiranti e colte d’Italia, la collaborazione tra la poeta Patrizia Vicinelli e Paolo Fresu che porterà alla realizzazione di Majakovskij il tredicesimo apostolo (Lab. 20/29, 1989), a cui collabora anche il poeta catalano Joan Mingüell, mai realmente prodotto, ma destinato a divenire un vero e proprio cult del genere.
Questa era, a grandi linee, la situazione quando, dopo circa un decennio di spoken word, io ho iniziato a sperimentare la possibilità di sviluppare una ricerca concreta dedicata alla realizzazione di poesia con musica, incontrando nel 1996, grazie alla mediazione di Nanni Balestrini, Paolo Fresu e, nel 1998 grazie a quella del videoartista Giacomo Verde, con cui collaboravo da tempo per la realizzazione di varie performance, Frank Nemola.
Nasce così il Rap di fine secolo e millennio, pubblicato anche su CD nel 1999, all’interno di Farfalle da combattimento (Bompiani).
Prima di quella data avevo già realizzato alcuni live con Paolo Fresu (e i fondali video di Giacomo Verde) di cui ricordo in particolare quello in occasione di Venezia poesia e poi, credo sempre nel 1997, quella realizzata a Roma, in Piazza Santa Maria in Trastevere su invito del Palma Jazz Club.
Ciò che chiedevo a Fresu, in quei primi tentativi, era sostanzialmente di dare un ‘senso’ musicale al testo, qualcosa che nascesse dalle parole e fosse capace di dialogare con loro in continuità con quanto aveva già realizzato con Vicinelli.
Con l’arrivo di Frank Nemola, invece, ho iniziato a riflettere molto di più sulla struttura e sulla dinamica (sonora e prosodica) dei testi, iniziando a comporre quelle che io considero le mie prime ‘poesie con musica’, a partire, per l’appunto, dal Rap di fine secolo e millennio.
In quegli anni, nel 2001, nasce anche l’unica incursione di un poeta decisivo come Giuliano Mesa(che fu anche un sapiente pianista) nel campo della poesia con musica, il Tiresia, realizzato con la collaborazione del compositore Agostino Di Scipio. Già in atto era anche la pionieristica e importantissima sperimentazione di Gabriele Frasca con Roberto Paci Dalò e le sue collaborazioni con Canio Loguercio, mentre a Bari si svolgeva la rilevante attività di Enzo Mansueto.
Nel 2002 vede la luce anche Sex in legoland di Giovanna Marmo con le musiche di Frank Prota, mentre in quegli stessi anni sono attivi anche Marco Palladini e Vincenzo Bagnoli.
Un discorso a parte per quanto riguarda le generazioni precedenti meriterebbe la ricerca di Nanni Balestrini, che dopo le esperienze pienamente neo-avanguardiste e ‘sonore’ del “Quatuor Manicle”, e la collaborazione con Luigi Nono e Demetrio Stratos, a partire dai primi anni del nuovo millennioinizia un suo personale percorso di sperimentazione poetico-musicale per la realizzazione, con Luigi Cinque, l’attrice e poeta Ilaria Drago e la sua presenza fisica sul palco, di Elettra che lo porterà all’elaborazione dell’originale concetto di “opera-poesia”.
In quegli anni io, per parte mia, sempre in collaborazione con Nemola e Fresu realizzavo il mio primo vero e proprio CD di poesia con musica Fast blood (MRF5 -Self, 2004) a cui partecipano anche altri musicisti: Michael Gross, Luigi Cinque, Luca Sanzò. Una serie di altri brani sarà inseritasuccessivamente ne L’esercizio della lingua (Le Lettere, 2008, con Nemola, Fresu, Gross, Antonello Salis, tra gli altri). Nel 2012 seguirà poi Piccola cucina cannibale (Squilibri ed. 2012, sempre con Nemola e Fresu affiancati da Salis, Sanzò, Maria Pia De Vito, Stefano La Via, Canio Loguercio, Rocco De Rosa, Paolo Bartolucci) e, nel 2016, Il Fiore inverso (con Nemola, Fresu,Kento, Sanzò, Simone Zanchini, Dario Comuzzi, Adele Pardi, Eva Sola).
A partire dal secondo decennio del nuovo millennio, peraltro, la poesia con musica, probabilmente anche per una sua vicinanza se non altro superficiale con il rap, inizia ad interessare ad autori ben più giovani, anche grazie al lavoro prezioso e di altissima qualità formale di Alberto Feltrin, in arte Alberto Dubito, rapper, ma soprattutto poeta trevigiano, morto giovanissimo nel 2012.
L’irrespingibile qualità poetica dei suoi testi, le sue innegabili capacità performative e le basi musicali sempre inappuntabili ed originalissime del suo producer, Davide Tantulli, in arte DJ Sospè, faranno dei Disturbati dalla CUiete, così si chiamava il loro duo, una vera e propria pietra angolare per lo sviluppo di una serie di sperimentazioni di artisti ancora giovani, e allora giovanissimi, anche grazie alla nascita, con il sostegno della famiglia di Alberto, del “Premio Alberto Dubito di poesia con musica” che dal 2013 coordino insieme a Marco Philopat e che ogni anno vede la partecipazione di decine e decine di autrici e autori.
Grazie al Premio, insieme al Premio, è nata una vera e propria scena italiana della poesia con musica anche grazie a una serie di altri poeti e poete, in buona parte provenienti dall’ormai grande serbatoio del Poetry slam.
Questi poeti e queste poete sono ormai talmente tanti che a volerli citare tutti si rischia (ed è quello che sto per fare) di dimenticarne qualcuno, o, ancora più probabilmente, di ignorare una parte di quanto di buono e di interessante si sta facendo a mia insaputa.
Non posso però esimermi dal citare, un po’ alla rinfusa, una serie di nomi di autrici, autori e di vere e proprie ‘band poetiche’ che hanno velocemente raggiunto una rilevante maturità espressiva.
Penso, in ordine alfabetico, a Dome Bulfaro, Alessandro Burbank, Marthia Carrozzo, Nicholas Cunial, Chiara Daino, Matteo Di Genova, Gaia Ginevra Giorgi, Wissal Hubabi, il duo Monica Matticoli-Miro Sassolini, Mezzopalco, Marco Miladinovich, Monosportiva Galli Dal Pan, Osso Sacro, Adriano Padua, Davide Passoni, Simone Savogin, Julian Zhara.
Si tratta di esperienze molto differenti tra loro, che coinvolgono tradizioni musicali molto eterogenee (dal hip-hop all’heavy metal, al jazz, alla musica di tradizione popolare, alla world music, alla musica colta contemporanea, al rock, al pop, alla techno e al punk) e di autori ed autriciche, in alcuni casi, presentano anche una rilevante produzione esclusivamente testuale.
Un caso a parte e dagli esiti particolarmente felici è a mio avviso quello del triestino Gabriele Stera,capace di produrre testi di altissima qualità formale e spiccata maturità, di sviluppare considerazioni teoriche di assoluto rilievo e di coinvolgere nelle sue opere uno spettro amplissimo di ‘suoni’, non solo musicali, fondendo e reinventando la lezione della poesia sonora con le esperienze più radicali della musica di ricerca (colta e ‘pop’) contemporanea.
Considero il suo Dorso mondo (Squilibri ed., 2021, con Franziska Baur, Jèrèmy Zaouaty e Martina Stella) una vera e propria perla della ‘poesia con musica’, non solo italiana, ma europea.
Ovviamente, se questo sviluppo tanto ricco di varietà ed energia è stato possibile, ciò è dipeso anche da una serie di mutazioni ‘strutturali’ a livello della fruizione e della distribuzione della poesia, esso è dipeso, cioè, anche dalle epocali evoluzioni tecnologiche a livello della conservazione e riproduzione del suono che hanno profondamente mutato la fruizione artistica in questi ultimi decenni.
Più sorprendente il fatto che proprio da una rivoluzione tecnologica nella distribuzione e fruizione della poesia possa essere dipeso, a parere del già citato Ziino, anche l’esaurirsi della stagione trobadorica.
Scrive nel già citato saggio: «La questione del presunto “divorzio” tra poesia e musica potrebbe quindi rivelarsi, forse, solo un falso problema, nel senso che esso si sarebbe verificato non tanto per essersi modificati i contenuti stessi della poesia o l’essenza del rapporto poesia-musica, quanto per i cambiamenti nei modi di trasmissione sia della poesia che della musica. Non so se ci siano gli estremi per chiamare tutto ciò con il termine “divorzio”: non è cambiato il rapporto semantico tra i due partner, poesia e musica, sono mutate, invece, le tecniche di diffusione sia dei testi poetici che di quelli musicali, oltre ovviamente alla struttura stessa della musica dal punto di vista tecnico, stilistico e formale. Inoltre, per una serie di motivi e di circostanze che ho cercato di illustrare, la circolazione della poesia, essendosi quest’ultima sostanzialmente svincolata dalla musica e dal canto, avviene ora per lo più tramite esemplari scritti e non solo per via orale; questo ha fatto sì che, dal momento che l’intonazione musicale non è più obbligatoria e necessaria ma solo opzionale, anche la divisione dei compiti tra poeta e musicista si sia sempre più accentuata, istituzionalizzandosi anche tramite la creazione di specifici ‘statuti’. Volendo limitare il discorso, per forza di cose, solo al nostro medioevo “romanzo”, la verità, a mio parere, è che forse non c’è mai stata un’unione ontologicamente intesa, quindi ‘statutaria’, tra poesia e musica; è vero però che almeno fino all’epoca di Dante tutti, o quasi, i testi poetici, di qualsiasi genere e contenuto, circolavano e si trasmettevano per lo più oralmente attraverso la musica e il canto, in quanto appartenenti a quella che Pirrotta ha chiamato “la tradizione non scritta della musica”, indipendentemente dal fatto se la musica fosse stata composta dallo stesso autore del testo o da un musico di professione».
Paradossalmente, anche nel caso della nostra contemporaneità è piuttosto evidente come nella nascita di un rinnovato rapporto tra poesia e musica (e tra parola e vocalità) siano stati decisivi una serie di cambiamenti ‘tecnologici’.
Ciò che un tempo aveva fatto il libro, il testo scritto, nel dividere le strade di poesia e musica viene riproposto oggi dall’azione dei media digitali che, nel momento stesso in cui ricollocano la poesia nell’ambito della sonorità, ne ripropongono, se non la necessità, certamente la possibilità.
2 – Il nodo teorico-formale
Ho più volte avuto modo di intervenire a proposito della natura sostanzialmente ‘sonora’ ed orale della poesia e del suo rapporto assai complesso (e da taluni anche complicato) con la cosiddetta letteratura, e qui vale la pena di ricordare solo alcuni aspetti generali della questione.
Come già sostenuto, con Gabriele Frasca, in Avviso ai naviganti: «la poesia è l’unica arte che nei secoli ha mutato il suo medium di espressione, passando dall’oralità del suono articolato, in assenza o in presenza del testo scritto, alla lettura silenziosa della pagina, che non è mai riuscita però a contenere del tutto la sua tendenza connaturata ad allocarsi nel corpo come una sorta di brusio. Quanto all’oggi, appare del tutto evidente che la brutale accelerazione che connota le strutture e le dinamiche sociali, culturali e antropologiche della contemporaneità, muta forzatamente (e forzosamente) i rapporti tra scritto e orale. Lo scambio d’informazioni culturali avviene attraverso strumenti sempre più multimediali, grazie ai quali si sostanzia un cambio di paradigma nel quale non solo si passa di nuovo dallo scritto all’orale, ma mutano anche i metodi e gli strumenti stessi della scrittura e della lettura silenziosa: la dettatura si sostituisce alla scrittura, l’endiadi occhio-orecchio al silenzioso lavoro della retina che decifra segni codificati, il suono rimanda all’immagine, che esplica il linguaggio con il feticcio di una realtà che copre il reale, mentre lo scritto offre ormai soltanto le notazioni ermeneutiche, i confini di un contesto. La scrittura vola via verso il fondo di quello strano rotolo ipertecnologico che è la home di ogni social, s’accelera a sua volta, integrando icone, abolendo vocali, si volatilizza mentre le parole restano a vibrare, a fare suono, sospese in un’epochè perenne, a mezz’aria, incise dalle punte del silicio in bit e beat.
Scripta volant, verba manent».
Ovviamente la natura orale, sonora, della poesia la pone immediatamente in un possibile rapporto con la musica, non a caso Zumthor parla di ‘opera vocale’ e sottolinea come «parola poetica, voce, melodia (testo, energia, forma sonora) uniti attivamente nell’esecuzione, contribuiscono all’unicità di un senso […]. È al livello del senso che viene suggellata l’unione: il senso ne costituisce la garanzia. Il resto ne deriva di conseguenza».
Il rapporto tra poesia e musica, insomma, c’è comunque dal momento in cui si decide di eseguire una poesia, sia vocalmente che mentalmente, anche in assenza di qualsiasi strumento musicale o ‘sonorità’.
Poesia e musica poggiano costitutivamente sui medesimi pilastri: ritmo, melodia, durata nel tempo, hanno entrambe relazione con aspetti ‘matematici’ dell’articolazione linguistica, che sonogeneralmente assenti, o non così rilevanti nella prosa, entrambe alludono o esplicitamente cercano quello che potrei definire un ‘effetto di senso’, prima ancora che di ‘significato’.
Da questo punto di vista mi ha molto interessato la definizione recentemente proposta dal Collettivo Zoopalco di ‘poesia come musica’: magari la definizione potrà apparire a qualcuno un po’ generica e a rischio di confondere i termini della questione in una notte in cui tutte le vacche sono nere, ma d’altra parte essa evidenzia con forza ed efficacia come un aspetto intrinsecamente musicale (e quindi eseguibile) sia presente, di per sé, in ogni espressione poetica.
La voce, d’altro canto, è pertinente tanto al campo musicale, quanto al campo poetico, fosse anchequella silenziosa del lettore che è chiamato comunque, nell’atto di lettura stessa, a scandire metricamente quel testo, pena la sua incomprensibilità.
Per altro verso, nella contemporaneità, le esecuzioni performative di poesia, con o senza musica, si basano per lo più su testi scritti. Tutta la poesia è, da sempre, anche orale e, allo stato presente, tutta la poesia è anche scritta. Lo prevedeva, con la consueta lucidità, anche Zumthor: «le voci più presenti che risuoneranno domani avranno attraversato tutto lo spessore della scrittura».
Annotavo qualche tempo fa, sempre con Gabriele Frasca: «La sua natura essenzialmente linguistica, cioè il suo essere basata sul medium che più di ogni altro ci rende umani, fa della poesia un’arte amichevole, anzi la più amichevole fra tutte: per questo essa ha sempre teso a fondersi con altre arti e con altri sistemi di comunicazione, a partire da quelli iconici delle pitture rupestri. Non esiste comunicazione umana, lo ricordava Giorgio Raimondo Cardona, che non sia di suo audiovisiva. La poesia è dunque costituzionalmente “liquida”: dalla lingua che articola la voce cola sulla pagina, e dalla pagina, dopo averla inzuppata, gocciola di nuovo sino alle orecchie (e agli occhi) del mondo. Il suo essere liquida le permette da sempre di mescolarsi e fondersi alle altre arti. Per questo ancora oggi la poesia si presenta pluriversa. Solca indifferentemente vari supporti (aurali, visivi, multimediali), ma la sua identità è linguistica; se è orale, rimanda allo scritto che la precede, se è scritta, rimanda all’oralità che vi è necessariamente immaginata e incorporata. La poesia che nasce musica, con la musica torna oggi a temperarsi, non per esserne accompagnata, né per ornare di contenuti una melodia puramente sonora, ma precisamente per dare voce a quella parte “analfabeta” che sta in ogni linguaggio e che l’alfabeto non può significare. Per esprimere, moltiplicandolo per armoniche acustiche, tutto il potenziale sonoro della lingua che la scrittura inevitabilmente silenzia.»
Il problema della scelta dell’introduzione della musica nella performance di poesia dunque potrà essere contestato a tutti i livelli per la sua riuscita formale, ciò che è assai più arduo dimostrare, a mio avviso, è la sua illegittimità.
A questo proposito, mutuando e ‘travisando’ un termine che viene dalla teorizzazione linguistico-antropologica di Claude Hagège, ho parlato spesso di un testo che è un’oratura.
Questo è importante, poiché la decisione di integrare la musica influisce direttamente, a monte,sulla composizione del testo, tanto sulla sua struttura, quanto sulle sue scelte linguistiche e poetiche e sulle sue ‘sonorità’, pur in uno scritto che comunque non perde – non dovrebbe perdere – le sue caratteristiche più strettamente poetiche. È sostanzialmente questo che differenzia una poesia con musica dal testo, per esempio, di un libretto per opera, o da questo o quel melologo.
Vorrei specificare, comunque, che, più in generale, io non credo affatto che sia in sé decisivo delineare sempre con assoluta precisione i confini di un’arte, quale che sia.
I confini di tutte le arti sono spontaneamente porosi ed oggi più che mai le arti (come i popoli) migrano dai loro usuali luoghi formali, verso altri, assolutamente nuovi, o antichissimi, ma comunque contemporanei.
La poesia, come affermato sopra, più di ogni altra disciplina artistica è da sempre aperta a superare i propri confini e a stabilire rapporti con tutte le altre arti (per restare alla contemporaneità, basti pensare a come essa si sia felicemente mescolata anche con la video-arte, con il cinema, il teatro, la pittura e la scultura, la danza. Non a caso, Adriano Spatola teorizzava la poesia ‘totale’).
Quindi, da un certo punto di vista, non è poi così importante stabilire cosa sia quella determinata opera fatta di parole dette e suoni musicali, se essa riesce ad emozionarci e a farci riflettere, se ci aiuta a vedere il mondo e noi stessi da prospettive inedite e necessarie.
Ma lo è, e molto, per individuare quale sia oggi l’identità di quest’arte, la poesia, come siano mutate le sue forme e quanto si siano allargati o ristretti i suoi confini e le sue interazioni con altre arti.
Il fatto è che io credo che la cosiddetta ‘poesia con musica’, o più in generale la cosiddetta poesia performativa, sviluppi caratteristiche ben presenti ed attive nella sua millenaria storia e dunque andrebbe più semplicemente definita, tout court, poesia, tanto quanto quella che resta scritta sul foglio.
Più o meno parallelamente con il suo rinchiudersi all’interno di un bacino sempre più ristretto ed esangue di estimatori e addetti ai lavori, però, si è assistito a un proliferare dell’attribuzione ‘poetico/a’ alle più differenti attività umane, sia nell’ambito di altre arti (quel film è poetico, quel brano musicale, o quella danza sono poetici) che altrove (Maradona, per esempio, segnava goal assolutamente poetici, e via così).
Ma la poesia è un sostantivo, non un aggettivo, di più: è il nome proprio di un’arte che ha la sua peculiare specificità, una sua identità, per quanto plurivoca, mutante, ‘amichevole’.
È per questo che è importante, a mio avviso, stabilire se quell’unione di parole e musica sia una ‘canzone’, o un melodramma, (e dunque attenga al campo prima di tutto musicale), o sia invece una poesia, sia pure con musica.
Se dovessi fornire un metodo per poter distinguere ciò che io chiamo poesia con musica da forme e generi musicali che si accompagnano a dei testi, partirei dal fatto che nel caso della poesia con musica il testo poetico dovrebbe avere una sua capacità di vivere autonomamente, persino sulla carta, di stare, insomma, in piedi da solo, senza quella che Valerio Magrelli ha definito la stampella della musica, o anche, più semplicemente, terrei ben presente l’intenzione del suo autore: vuole comporre una poesia, o invece il testo di una canzone, di un brano rock, un rap o il libretto di un melodramma?
Se la sua prassi sarà conseguente alle sue intenzioni, l’aspetto ‘testuale’, linguistico, non potrà non essere predominante.
Mozart, a proposito del melodramma, disse che in quel caso ‘la poesia deve essere la figlia obbediente della musica’.
Nel caso della poesia con musica dovrebbe avvenire l’esatto contrario, dovrebbe essere la musica ad essere figlia obbediente del testo poetico. Dovrebbe essere “musica per poesia”, per riprendere la felicissima definizione di Pirrotta.
Da questo punto di vista la poesia con musica è il polo opposto al melodramma e all’opera lirica e ciò viene evidenziato dal fatto che, almeno per quanto mi riguarda e, a mio avviso, in linea di principio, il testo non viene mai cantato, ma detto, scandito, eseguito, attenendosi alla prosodia poetica, quindi alle sue leggi metrico-formali.
Sono i ritmi, le dinamiche sonore, le velocità e la scansione della poesia a stabilire le regolestrutturali e formali generali cui la musica dovrebbe attenersi, non il contrario.
Ma non solo: la poesia, a mio avviso, pur avendo aspetti assolutamente attinenti alla pura foné, aspetti decisivi e fondanti, che di fatto la pongono ai confini della cosiddetta letteratura, non può mai sfuggire del tutto al suo rapporto con i significati, quindi con le parole, nel loro aspetto più intimamente linguistico, codificato.
Non comprendere ciò che dice il testo di un melodramma è faccenda secondaria ed è abbastanza evidente che la qualità dei testi letterari nelle forme miste è spesso assai più bassa di quella musicale: è quest’ultima a decidere la bellezza o meno di un’opera, o di una canzone, non la qualità letteraria del cosiddetto ‘libretto’ (e il diminutivo ne è segno evidente).
Quei testi senza musica non sopravvivono, si spengono, mostrano tutta la loro limitatezza dal punto di vista strettamente ‘letterario’. Con tutte le eccezioni del caso, ovviamente.
Ciò permette, a mio modo di vedere, di distinguere con una certa evidenza se quell’insieme di parole e suoni musicali sia qualcosa che attenga al coté poetico, o a quello musicale.
Ma qual è la funzione che la musica ha, o dovrebbe avere, nella costruzione complessa e multimediale di una poesia con musica?
Altrove ho parlato degli aspetti ‘analfabeti’ propri di ogni testo poetico. Una parte sostanziale dell’apporto semantico di una poesia sta, come detto prima, nelle sue parole, ma un’altra, assai meno evidente sulla carta, ma di grande importanza nel generare il senso di quella poesia, sta nei suoi tratti sovra-segmentali, che non possono essere alfabetizzati e che il testo poetico, in sé, non definisce in alcun altro modo, se non implicandoli attraverso i suoi ritmi e le sue prosodie e realizzandoli all’interno di un’esecuzione.
Una poesia, insomma, non esiste realmente se non nel momento della sua esecuzione. È un agire. Ma nel momento della sua esecuzione essa non produce solo significato, ma anche e soprattutto senso ed è su questo aspetto che la musica può arricchire, potenziare, rendere più efficace l’atto poetico. La poesia, come sosteneva Balestrini serve a dare parola e senso alle emozioni e le emozioni riguardano anche il corpo e debordano la lingua alfabetizzabile.
La musica che dialoga con la poesia non è mai semplicemente una musica d’accompagnamento, ma una vera e propria ‘traduzione intercodice’ di un senso generale che pertiene alla poesia e che è lo scopo fondamentale di quel dire, senza l’esplicitazione totale del quale (anche nei suoi aspetti ‘analfabeti’) non potrà avvenire quell’equivocare connotativo, quello ‘scarto’, quello scrivere per indurre il lettore all’errore, che fa della poesia una specie linguistica a sé.
La musica è, in questo senso, parte di un testo (sonoro) plurivoco, in cui differenti codici si incontrano, dialogano e si completano; un testo che è, letteralmente, un luogo eterotopico, cioè lo spazio (tanto alfabetico, quanto performativo e musicale) in cui un’eterotopia si realizza. O, per dirla in altro modo, forzando un po’ in senso metaforico la nota definizione di Jay D. Bolter e Richard Grusin, di una rimediazione (remediation) in cui la musica assume in sé una serie di caratteristiche formali e persino di contenuto del testo poetico.
La musica, inoltre, fa sì che l’aspetto del dire riprenda tutta la sua importanza rispetto a quello del detto, del significato che si intende comunicare; essa rileva una fondamentale funzione fatica dei versi, che fa della poesia, prima di ogni cosa, un invito alla relazione linguistica tra esseri umani,una esortazione al dialogo come chiave essenziale della comprensione del reale. Ed anche una costante ri-fondazione del codice poetico e di quello più ampiamente linguistico.
La poesia serve a tenere in allenamento il linguaggio, diceva Elio Pagliarani, con la sua solita,efficacissima e inconfondibile icasticità.
La poesia, peraltro, ha certamente vari aspetti in comune con la glossolalia e la poesia con musica è poesia che, anche e soprattutto grazie alla musica che interagisce con essa, guarda dove guarda la glossolalia, nello strapiombo e allo strapiombo (Michel De Certeau), là dove il linguaggio, morendo al significato, rinasce alla voce e rifonda le sue ragioni d’essere (quel che è) ed anche i suoi significati, ridonando loro senso.
La musica, insomma, ambienta la parola detta nello spazio e nel tempo, potenziando la sua sonorità, denunciando come la parola sia innanzitutto vibrazione sonora, evento materiale e materico, azione, gesto.
Ciò che chiedo alla musica, perciò, è di far, letteralmente, ri-suonare i significati, essa deve arricchire di senso i significati proposti dal linguaggio: una sorta di mise-en-abyme dei versi o anche un’anamorfosi sonora, in cui il punto di vista unico venga sostituito da un ‘punto d’ascolto’plurimo, il fuoco ottico, da un fuoco aurale, dinamico.
La realizzazione poetico musicale deve riuscire a porre l’ascoltatore esattamente in quel punto d’ascolto sempre variabile che si sviluppa nel tempo dell’esecuzione e che permette la realizzazione di un ‘fuoco aurale’ in cui voce e musica siano complici nel rilevare ed arricchire (di senso) le parole e che, connotandole, le faccia scintillare, senza mai coprirle o trascurarle.
Per dirla in altro modo: deve portare il fruitore sulla cresta dell’onda (sonora) fatta di parole e note musicali, perché la poesia sta là a comunicare il punto di vista del linguaggio, non quello del poeta.
Scrivevo, già nel 2009, in A mio modesto avviso: «La poesia è un’arte che abita il suono. E che ne è abitata. La poesia è fatta di una materia precisa, quell’insieme di vibrazioni fisiche ed emissioni sonore che chiamiamo voce. La poesia si propaga. La poesia ha un corpo, corpo mutevole, che rimbalza e si infiltra, che penetra, fa eco, indica, si atteggia nello spazio, lo percorre, la poesia ha dita fatte di vocali e consonanti per battere e carezzare, per stringere e per allontanare, per catturare e per liberare, per coprire e per svelare.
Se per millenni la poesia è stata edificata sulle rime, ciò è accaduto per la sua natura squisitamente sonora e da questo punto di vista la rima e tutte le figure ad essa riconducibili (dall’allitterazione alla cobla capfinida) sono il corpo stesso della poesia, i suoi muscoli, i suoi polmoni, il suo fegato, il suo scheletro, e il suo cuore.
La poesia è un’arte che abita la voce, ne cavalca le onde (sonore), sta sulla loro cresta, sfrutta la loro energia, la loro ‘dinamica’, per trasformarla in una direzione, in un senso, in quello che la critica usa definire un ‘significato’. La voce della poesia è esattamente la voce del poeta, mai il contrario… Parlare di poesia muta, scorporata, puramente mentalistica è, dunque, fare un ossimoro. È ignorare la natura stessa della ‘funzione poetica’ (Jackobson) in cui i tratti sovra-segmentali assumono un’evidente significanza.
Parlare del corpo della poesia è invece la nostra necessità impellente. Quella che renderà di nuovo possibile il suo futuro, attraverso il riconoscimento delle sue radici, l’auto-agnizione che le ridarà identità e dignità.
È la sua ‘durata’ il suo appartenere integralmente al tempo, al corpo, al luogo di chi la pronuncia, al suo ‘presente, il suo essere ‘atto’, che fa sì che essa possa ‘vincere di mille secoli il silenzio”; la poesia è una ‘materia’, una ‘concretezza’ (H. De Campos), prima che un segno, o un simbolo, e il suo dio è Efesto e non Apollo.»
La musica ha, però, un suo proprio linguaggio codificato, una sua ‘grammatica’, una sua ‘sintassi’. Il problema è, quindi, metterlo efficacemente in relazione con quello poetico.
Ho trattato di tutto ciò in Per una poesia ben temperata ed è forse utile riportare qui parte di quanto affermavo e che mi pare ancora sostenibile: «Tra poesia e musica non c’è accompagnamento, ma ‘accordo’, temperamento’, nel senso più ampio della parola. Si dovrebbe parlare, cioè, mi si passi la metafora azzardata, dello sviluppo di un contrappunto tra le linee melodiche (e i ritmi) della parola e le linee melodiche (e i ritmi) della musica , tra accenti prosodici ed accenti musicali, tra cursus del linguaggio e melodia musicale, tenendo sempre ben presente che la musica viene (anche temporalmente) dopo le parole e che è essa a doversi temperare nel tutto sonoro e ‘concreto’ che darà vita alla poesia vera e propria.
Ciò vale a maggior ragione poiché una delle caratteristiche formali di entrambe le forme artistiche, il ritmo, pur essendo apparentemente desemantizzato, assume in realtà valenze semantiche evidenti: “il ritmo è senso, un senso intraducibile in lingua con altri mezzi” [Zumthor].
Esiste, cioè, un ‘senso non linguistico’, o, se si preferisce, ‘non alfabetizzabile’ di ogni transazione comunicativa e tale senso è presente – almeno a livello originale, nella ‘motivazione a dire (e a scrivere)’ – in ogni enunciato linguistico, nel suo essere un ‘atto’, ed esso è assolutamente di pertinenza della poesia, prima ancora che di qualsiasi analisi linguistica.
La poesia è precisamente il tentativo di accedere a un ‘senso pieno’ della lingua, e dell’espressione, colmando con i suoi tratti soprasegmentali le lacune della comunicazione linguistica quotidiana e referenziale. A ciò è chiamata a collaborare anche la musica.
Quando musica e linguaggio tentano di fondersi in poesia si tratta, allora, dell’equilibrio difficilissimo di facoltà tanto simili, quanto diverse, il loro ‘accordo’, il loro temperarsi ritmico e melodico, ma anche linguistico e semantico, esso è il risultato di un progetto accurato, mai può realizzarsi attraverso l’aleatorietà di un qualsiasi ‘accompagnamento’, o la giustapposizione di poesia ‘pronunciata’ a siparietti musicali. Non basta neanche tentare di accoppiare i colori o i toni: l’esigenza è, appunto, quella di un contrappunto complesso, di un accordo, di un temperamento ben più profondo e ‘strutturale’ tra il livello semantico del linguaggio e quello sonoro, ma altrettanto ‘espressivo’, della voce e della musica. Esiste cioè una necessità compositiva tanto a livello linguistico quanto, ed a maggior ragione, a livello musicale.
D’altra parte il lavoro del poeta si aprirà, a quel punto, alla collaborazione di altri, che pur arrivando in un secondo tempo, saranno decisivi nel rendere concreto ciò che è ancora un semplice testo linguisticamente codificato, almeno nella misura in cui il poeta non voglia, o non sia in condizione di comporre da se stesso la musica per i propri testi ed orature.
Tutto ciò non mette soltanto in crisi il concetto di autore in poesia (con tutta la problematica che ne consegue, in primo luogo per quella che chiamiamo usualmente ‘poesia lirica’), ma coinvolge il processo stesso della nascita dell’opera affidando al poeta propriamente inteso non solo un ruolo autoriale per quanto concerne il testo, ma una funzione di ‘arrangiamento e temperamento’ da cui dipende in buona misura tutta la qualità complessiva della poesia, indipendentemente della qualità dei suoi elementi singoli (testo letterario, esecuzione vocale, musica, ecc..)».
La stessa collaborazione si stabiliva spessissimo in epoca trobadorica tra l’homo (il poeta) e il joglar (il giullare). Da questo punto di vista, come per Dante nel De vulgari eloquentia, la poesia(con musica) non si scrive, essa si ‘compone’.
Lello Voce, e lo dico da anni, è, insomma, un autore ‘collettivo’.
3 – Il nodo della critica e dell’interpretazione
Tutto quanto sostenuto sinora ha comportato una serie di conseguenze anche a livello del dibattito tra poetiche e, più in generale, nelle relazioni tra la poesia e la critica letteraria.
Un primo fenomeno di cui è possibile accorgersi con una certa facilità è come alle precedenti polemiche tra differenti tendenze si sia affiancato, a partire dai primi anni del nuovo millennio, un dibattito più generale (e a volte generico) tra poesia performativa e poesia ‘muta’, quella che sta esclusivamente nei libri.
È un fenomeno di cui è possibile rilevare tracce piuttosto evidenti anche in altri paesi europei: Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, sono tutti luoghi dove è possibile individuarne segnali.
Il dibattito si è spesso focalizzato più su un confronto tra differenti scelte ‘mediali’, il libro fruito dall’occhio e eseguito a mente, da una parte, l’esecuzione dal vivo, o su supporto audio, con o senza musica, dall’altra. Si è passati insomma, almeno per un certo periodo dal conflitto tra poetiche al conflitto tra media (freddi e/o caldi, per dirla con McLuhan).
Mi pare giunto il momento, però, di superare questa fase: al di là del fatto che si scelga di allocare o meno medialmente la poesia nel suono (e nella musica) esistono poi scelte decisive, attinenti sia al testo, che alla musica ed anche alla relazione che si decide di stabilire tra di esse, che mi pare possano individuare differenti poetiche, a volte tra loro assai distanti, o addirittura incompatibili.
Ovviamente, l’aspetto principale di queste differenze sta, prima di tutto, nelle scelte testuali, nell’uso del linguaggio, cioè nelle forme poetiche che ogni singolo autore sceglie per sé, nell’idea di poesia che ha. Certamente anche le forme musicali convocate a far parte della composizione poetica avranno il loro peso, ma ancor di più, a mio avviso, la relazione, il ‘contrappunto’, che si stabilirà tra parole e musica.
È arrivato il momento, insomma, per dire che alcune poesie con musica ci paiono funzionare, essere riuscite, essere ‘belle’ ed altre invece no e di iniziare a discutere del perché.
Senza tutto ciò, senza il confronto e, eventualmente, la polemica tra differenti scelte formali difficilmente il cammino della poesia con musica potrà svilupparsi in modo ricco e maturo.
Già: ma per fare questo occorrerebbe anche l’apporto della critica.
In tutti questi anni, invece, la critica letteraria è stata assolutamente sorda agli stimoli che provenivano dalle prassi poetiche: sempre più rifugiata nella nicchia rassicurante della filologia,essa ha ignorato quanto stava avvenendo, limitandosi, nell’assoluta maggioranza dei casi, ad analizzare il testo, lasciando da parte tutto ciò che riguardava l’aspetto performativo, che si trattasse degli aspetti vocali ed esecutivi, o invece del rapporto che si instaurava con la musica e con le sue caratteristiche formali.
A voler riprendere, con un pizzico d’ironia, il termine usato da Contini, si potrebbe parlare di un vero e proprio divorzio dell’analisi critica da molte delle prassi poetiche realizzate in questi anni.
In questi ultimi anni io ho avuto la fortuna di poter godere dell’attenzione di molti bravi critici letterari italiani, ma, con l’eccezione dell’ampia analisi dedicata al mio Lai lento dal musicologo Stefano La Via (Il Lai del ragionare lento e la sua Voce poetico-musicale. Appunti per un’analisi razionalemotiva, in L. Voce, L’esercizio della lingua, cit. Vedi al link integrato) e dalle sue saldissime competenze letterarie, in nessun caso il discorso si è spinto sino all’analisi degli aspetti musicali e/o esecutivi delle mie opere.
A voler allargare il discorso potrei qui ricordare, per esempio, che anche nel caso del Tiresia di Mesa le numerose letture critiche dell’opera si sono sempre limitate al testo, lasciando da parte il pur pregevolissimo lavoro musicale di Di Scipio e le qualità esecutive di Mesa stesso.
Ugualmente potrebbe dirsi per la quasi totalità dei casi in cui ci si trova davanti a poesia ‘performativa’, o a poesia con musica. Tutto ciò che pare meritevole di analisi è solo il testo e nulla più.
Ma quella musica (quell’esecuzione vocale) non è un accidente, qualcosa che c’è, ma che avrebbe potuto non esserci, è parte integrante e decisiva della realizzazione di quella particolare poesia con musica (o di quell’esecuzione vocale).
La poesia non è mai soltanto il suo testo, e, in questo caso, le scelte interpretative e le capacità performative del poeta hanno un valore e un’importanza sostanziali nell’analisi delle caratteristicheformali e artistiche di quell’opera.
Il critico che voglia analizzare e giudicare questo particolare tipo di poesia non potrà più essere solo un filologo, né tale compito potrà essere trasferito tout court ad un musicologo, ma avrà bisogno di una nuova ed inedita figura. portatrice di competenze plurime e complesse che comprendano tanto il campo ‘letterario’ quanto quello musicale e quello, sempre più vasto e variegato, delle cosiddette ‘arti performative’.
C’è bisogno cioè, come vado sostenendo da tempo, di una ‘critica poetica’ che sostituisca, in questo caso, quella che chiamiamo critica letteraria, proprio perché la poesia non ha soltanto forme letterarie, ma anche performative (persino quando sta soltanto sulla carta, ma a ciò provano ad ovviare, come possono, le analisi metriche) ed eventualmente musicali.
A voler fare un facile gioco di parole si potrebbe dire che oggi la poesia ha bisogno di interpreti che sappiano interpretare l’interpretazione.
Non è la poesia che deve adattarsi agli strumenti posseduti dalla critica in quel determinato momento, ma l’esatto contrario, o parliamo di un universo capovolto.
A questa nuova figura di ‘critico poetico’ andrebbero probabilmente affidate anche le analisi dei differenti modi in cui una poesia con musica può oggi presentarsi: dal vivo, su disco, o su supporto digitale, prima di tutto.
Che differenza c’è e quanto valore formale ha tale differenza, se confrontiamo la realizzazione livedi questa o quella poesia con musica rispetto al suo congelamento in quel particolare tipo di ‘testo’ che è la sua registrazione audio?
Ciò è molto importante, anche perché qualsiasi poesia metta al centro delle sue scelte formali la sua esecuzione vocale (con o senza musica) si presta volentieri alla reinterpretazione da parte di altri, esattamente come avviene per qualsiasi brano musicale (o qualsiasi testo teatrale).
Con quali categorie critiche analizzeremo l’eccellente lavoro che il gruppo Mezzopalco sta dedicando ad alcuni testi di Patrizia Vicinelli, eseguendoli di nuovo e mettendoli in musica?
Ma lo stesso discorso potrebbe farsi per l’eccellente lavoro che da anni porta avanti Rosaria LoRusso, reinterpretando vocalmente i testi di autori del passato, una per tutti: Amelia Rosselli e la sua Libellula.
Un’ultima osservazione, prima di concludere.
Il ritorno del rapporto con la musica, a mio modo di vedere, non si limita soltanto alla produzione di forme diverse per la poesia, ma tira in ballo anche problematiche molto più generali, come ilrapporto tra Avanguardia e Tradizione.
Quanto visto sinora a proposito della relazione delle nuove sperimentazioni poetico-musicali con l’esperienza trobadorica e con la poesia delle Origini, sino a Dante, sembra suggerire che il rinnovamento artistico non passa necessariamente da un’opposizione dicotomica con il passato, ma anzi che esso può svilupparsi proprio a partire da una rilettura di quella che chiamiamo Tradizione, individuandone aspetti nuovi, o riscattando e vendicando, benjaminianamente, esperienze poste ai margini, o negate nei canoni precedenti.
Quando con gli amici di “Baldus”, già nel 1989, davamo per completamente esaurita la dicotomia Avanguardia/Tradizione a causa dell’incapacità di quest’ultima di qualsiasi funzione normativa (erano gli anni del dibattito a proposito di Moderno e Postmoderno) parallelamente a questo avevamo iniziato un lavoro di scavo e di riproposta di una serie di autori e di ‘tradizioni’ alternative, messe ai margini dal canone vigente: su “Baldus” trovavano posto, fianco a fianco, Michelangelo poeta ed Emilio Villa, Teofilo Folengo e Edoardo Cacciatore, Francesco Leonetti, Haroldo De Campos e i poeti ‘nuyoricani’ di Pedro Pedri, o gli esperimenti di radio-poesia dell’australiano Vitzens e Rabelais, o Berni.
La tradizione, vista così, ci appariva in qualche modo già allora come ‘genealogia delle avanguardie’ (Petrarca, a suo modo, avanguardista lo fu più di ogni altro, rivoluzionando e cambiando, con intollerante autorevolezza, per i secoli a venire, l’idea che si aveva della poesia in Europa sino ad allora), l’avanguardia per parte sua, perdendo ogni connotazione ‘militare’, aggressiva, si trasformava in un enorme, eccitante lavoro di esplorazione e riscoperta di radici nascoste e neglette, nel loro ‘romanico’ riutilizzo per edificare una nuova contemporaneità, senza il quale la novità per la novità perdeva ogni senso.
E ancora oggi la penso così.
La sperimentazione, anche quella della poesia con musica, non è altro che la ‘dinamizzazione di una tradizione’ e, eventualmente, la sua relazione con un nuovo medium. Un ritorno del passato (del represso, nel caso della tradizione italiana delle Origini) che, in forma di mutoide, interpreta e vive il futuro.
[In: ULISSE, n° 26, 2023]